Forlì, 16 aprile 2013 - «SIAMO in presenza di un rifiuto di vecchie e di nuove regole concordate per la formazione e il funzionamento della coalizione di governo, con la messa in contrapposizione anche della democrazia diretta e referendaria con la democrazia rappresentativa e parlamentare»: Roberto Ruffilli, ‘Il cittadino come arbitro’, 1988 (postumo).

 

Colpisce la straordinaria attualità di queste parole, a 25 anni esatti dall’omicidio di Ruffilli. Mio cugino Roberto venne ucciso nella sua casa di Forlì, in un sabato pomeriggio di sole, da due esponenti delle Brigate Rosse travestiti da postini. Gli spararono alla nuca, sul divano dello studio, con lo stereo ad alto volume per coprire il rumore dei colpi.

 

Ruffilli era un professore universitario, studioso di storia e di istituzioni politiche, eletto senatore per la Dc nel 1983 e nel 1987, «uomo chiave del rinnovamento, capace di ricucire tutto l’arco delle forze politiche comprese le opposizioni». Sono le frasi con cui le Br ne rivendicarono l’omicidio, parole che sintetizzano in modo incredibile il perché della sua morte: per aver avuto la capacità di mediare. Era stato individuato come il «cervello politico» in grado di costruire davvero il cambiamento su un progetto di riforme costituzionali condiviso e non espressione di una sola parte.

 

Rileggendo oggi i suoi studi, è facile dire che ‘abbiamo buttato via 25 anni’: Ruffilli parlava, fra l’altro, di riduzione del numero dei parlamentari, di trasparenza e democrazia dei partiti, di come cambiare le regole della rappresentanza parlamentare. Su questi e altri temi la politica non ha saputo trovare quel «compromesso ragionevole» di cui era capace Roberto, uomo paziente e tenace per carattere, oltre che per formazione culturale prima che politica. Aveva ben chiaro l’importanza e l’urgenza di passare dalle parole ai fatti, partendo da riforme piccole per arrivare gradualmente a quelle principali: una lezione non sorpassata e che può ancora essere ascoltata e seguita.

di Franca Ferri