Forlì, 1 febbraio 2013 - DUE DIPINTI straordinari introducono alla mostra, vastissima, “Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre”. Ideata da Antonio Paolucci e curata da Fernando Mazzocca, si apre domani e sarà visitabile fino 16 giugno nelle sale dei Musei di San Domenico a Forlì. Sono la nitida, luminosa, esemplarmente prospettica veduta urbana della “Città ideale” della Galleria Nazionale di Urbino, e “Silvana Cenni”, capolavoro del 1922 di Felice Casorati, che rievoca Piero della Francesca e insieme i ferraresi del ’400 in un’atmosfera di metafisica sospensione. Un incipit esemplare per una mostra che abbraccia quasi trent’anni di storia italiana, dalla “Maternità” di un Gino Severini ormai decisamente oltre la sua avventurosa stagione tra l’avanguardia futurista e il Cubismo, e la serie del “Dux” di un Mino Maccari che, al Cinquale insieme a Roberto Longhi nell’agosto del 1943, poteva esaltare la sua innata vena satirica in una sequenza pirotecnica di feroci caricature di Mussolini.

A QUELLA DATA quasi tutto s’era ormai tragicamente compiuto di quella lunga stagione governata dai miti e dalle funeste illusioni di un’ideologia che soggiogarono o comunque attrassero artisti, filosofi, letterati, architetti. Figure, in diversi casi, di alto profilo, ma con un corollario inevitabilmente vasto di comprimari ed epigoni ligi alle parole d’ordine, versati alla retorica dell’ adulazione.
Il percorso della mostra dà conto degli uni e degli altri, per meglio rappresentare il clima di quegli anni, a cominciare dalla celebrazione della grande guerra come culto della patria, presupposto di un nazionalismo dagli accenti sempre più autarchici.
 

Dal primo conflitto mondiale, per Massimo Bontempelli, prendeva realmente inizio il secolo nuovo: «L’Ottocento non poté finire che nel 1914: il Novecento non comincia che un poco dopo la guerra». E pazienza se proprio alcune delle avanguardie più innovative, dall’Espressionismo al Cubismo dal Futurismo all’astrattismo e all’incipiente Dadaismo, venivano espunte dal secolo nuovo e come ricacciate in quella cultura ottocentesca che avevano inteso rimuovere.
 

Il cosiddetto “ritorno all’ordine”, esteso ben oltre i confini, e che per buona parte costituisce la linea guida dell’arte degli anni fra le due guerre, aveva già avuto illustri interpreti, da Derain e Picasso — di cui in mostra c’è la “Grande baigneuse” del ’22, di una classicità mediterranea — al Carrà futurista in crisi, che ripensa a “Giotto spazioso” e a “Paolo Uccello costruttore”. Per non parlare di De Chirico, che con la sua metafisica già dalla fine del 1909 aveva rappresentato l’altra anima della modernità rispetto alle avanguardie, e che si proclamerà poi, orgogliosamente, “pictor classicus”.

DALLA RIVISTA “Valori Plastici” fin dal ’18, e dal gruppo del “Novecento italiano” tenuto a battesimo da Margherita Sarfatti e dallo stesso duce nel 1923 alla Galleria Pesaro, viene poi progressivamente professato il nuovo verbo: un ritorno al passato per trarne i motivi conduttori di una modernità fondata, come diceva Carrà, su «una solida geometria di oggetti, una nuova classicità di forme». Geometria, solidità, compostezza, modelli architettonici, riconoscibilità di principi costruttivi della tradizione italiana, diventano i segni distintivi di un “Novecento” che dai sette artisti iniziali — Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, e il maggiore, Sironi, tutti ottimamente rappresentati in mostra — si allarga poi a dismisura.
Il padre guida del Futurismo, Marinetti, ne era sdegnato, nel mentre parlava con entusiasmo dell’impressionante busto di Mussolini eseguito da Wildt .
 

La mostra forlivese documenta bene anche quell’unità delle arti che tra design, arti plastiche, grandi decorazioni — Sironi ne fu il teorico e l’interprete più forte — e moda e costume, trova gli esempi più alti nell’architettura, a partire dagli edifici pubblici.
E una quantità di opere di pittori come Pirandello, Ferrazzi, Balla, Donghi, Borra, Viani, Prampolini, Cagli, oltre a quelli già citati, e di scultori come Martini, Rambelli, Manzù, per dire solo di alcuni, ricostruiscono un quadro d’assieme quanto mai rappresentativo.

UN QUADRO da cui sono esclusi i protagonisti di aree culturali per così dire non organiche all’ufficialità riconosciuta: dagli astrattisti lombardi, quali Fontana, Licini, Melotti, Soldati e gli altri, alla scuola di Via Cavour con Scipione, Mafai e Antonietta Raphael, ai “chiaristi” sostenuti da Edoardo Persico.
E Morandi, estraneo a movimenti o gruppi, e soprattutto quanto più lontano nella sua pittura da miti e modelli del regime.

Claudio Spadoni