"Agguato mafioso, il mandante aveva coperture nella polizia"

Inquietanti risvolti dietro il ferimento di un artigiano imolese a Faenza

La scientifica sul luogo dell’agguato

La scientifica sul luogo dell’agguato

Imola, 18 novembre 2014 - Tentativi di inquinare le indagini e coperture delle quali il clan dei catanesi avrebbe beneficiato persino in un esponente delle forze dell’ordine in Sicilia. Ci sono altri inquietanti tasselli nel quadro accusatorio emerso alla prima udienza del processo per l’agguato di stampo mafioso avvenuto a Faenza l’8 luglio del 2009. Quel giorno un artigiano siciliano, Salvatore Arena, all’epoca dei fatti 45enne, e in Romagna da otto, finì sotto i proiettili di un ignoto sicario, che per gli investigatori era stato inviato da Catania da un gruppo criminale collegato al clan Nicotra, negli anni ’80-’90 protagonista di una faida sanguinosa contro i Pulvirenti di Giuseppe ‘U Malpassotu’ per il controllo della zona etnea di Misterbianco. Di cinque spari, due andarono a bersaglio, e il fabbro si salvò per miracolo. Salvatore Randone, imprenditore di 59 anni di origine catanese ma residente a Dozza, è considerato il mandante dell’agguato. Con lui altre cinque persone, tra cui la moglie e il figlio, sono alla sbarra. Compreso il presunto esecutore, Antonio Rivilli, 43 anni, detto ‘Grilletto d’oro’. Con Antonio Nicotra, 67 anni, e Mario Caponnetto a vario titolo devono rispondere di tentata estorsione e tentato omicidio con l’aggravante del metodo mafioso.

I catanesi volevano che l’artigiano, che già nel 2003 aveva subito minacce, rinunciasse a un contratto di lavoro stipulato con una ditta di Casalfiumanese, dato che con quella società stava già lavorando la srl di Randone. Due anni prima, nel 2007, il gruppo aveva convocato il fratello di Arena, Antonino, affinché si facesse ambasciatore di un messaggio molto chiaro: «Digli che smetta di lavorare, o lo facciamo fuori». Rivilli ‘grilletto d’oro’ era il più minaccioso («quello ci sta rubando il lavoro»), ha spiegato il luogotenente dei carabinieri durante la sua lunga deposizione in Tribunale. Lo si sa perché Antonino aveva registrato l’intero incontro, finito il quale fu invitato a casa di Randone che gli mostrò una pistola, col pretesto di verificarne il funzionamento.

Randone, in pratica, non voleva che nessuno si allargasse e avrebbe detto no persino a un’impresa di pulizie che uno del suo giro voleva aprire. A lui gli investigatori sono arrivati intercettando anzitutto la vittima. E quando due mesi dopo l’agguato i carabinieri convocarono i dipendenti di Randone, questi per depistare le indagini li avrebbe presi da parte, gettando fango su Arena attribuendogli spaccio di droga e persino un’amante. Secondo gli investigatori era piuttosto lo stesso Randone a intrattenere una relazione con la moglie di un dipendente.

Inquietante il passaggio in cui il luogotenente dei carabinieri di Ravenna ha svelato la presunta copertura di cui godeva Randone: al telefono con un ispettore della Mobile di Catania (peraltro già attenzionato dalla Mobile di Ravenna), quest’ultimo gli disse: «Tu sai chi è Antonino Nicotra vero?». Per gli investigatori si trattava di una domanda retorica, tesa a mettere Randone in guardia dato che Nicotra era tenuto d’occhio dalle forze dell’ordine. E di questo, in seguito, Randone informò il figlio, Antonino Randone, e la moglie, Maria Campanello. La prossima udienza è in programma a gennaio.