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UN TARLO: «Se le indagini fossero state fatte meglio, prima del 2 maggio 1991, forse mio padre sarebbe ancora vivo». Voce ferma, mai un cedimento: «Per me è diventata una missione», dice Alberto Capolungo. 54 anni, di Castel San Pietro Terme, insegnante all’istituto superiore Alberghetti di Imola, è il figlio di Pietro, l’ex carabiniere ammazzato in via Volturno. Un’esecuzione, la sua. Su cui restano ombre.
Perché pensa che suo padre avrebbe potuto ancora essere vivo?
«Una premessa: ringrazio Valter Giovannini e Libero Mancuso, grazie a loro la storia giudiziaria della Uno Bianca ha preso un altro corso».
Ma?
«Prima non è stato fatto tutto a dovere. Ci sono state cose che di fatto hanno ritardato la soluzione del caso. C’è un dettaglio che ancora adesso mi fa arrabbiare».
Quale?
«C’è stato un momento, nell’inchiesta, in cui si doveva prendere una determinata pista. Ma l’indagine prese un’altra piega».
A cosa si riferisce?
«Torniamo con la mente all’eccidio del Pilastro. Bastava fare indagini sul fucile AR70».
In che senso?
«Con controlli più approfonditi sarebbe emerso un particolare inquietante: solo quaranta persone, in Emilia-Romagna, possedevano quell’arma. Roberto Savi era l’unico proprietario di due fucili di quel tipo. Allora mi dico: la strage poteva essere fermata prima».
Il duplice omicidio di via Volturno resta il punto cardine dell’inchiesta. Presenta ancora dei lati oscuri?
«E’ stato effettuato uno scandaglio accurato su quella vicenda. Il magistrato è arrivato a una soluzione più che convincente. Ma non vuol dire che io sia soddisfatto».
Perché?
«Ecco: perché? Perché mio padre è stato ucciso in quel modo? Perché è stato vittima di un’esecuzione? Fabio e Roberto Savi hanno perso tempo pur di attenderlo nell’armeria. Perché ucciderlo così, in pieno giorno, in un budello in centro? Perché rischiare in quel modo?».
Per gli investigatori una risposta c’è: suo padre aveva avuto un sospetto, allora i Savi l’hanno eliminato.
«Ma qualcosa non torna. Mio padre era tranquillo in quei giorni. Se fosse stato sicuro di una vicenda del genere, ce l’avrebbe detto o ce ne saremmo accorti. E poi mio padre non conosceva Roberto Savi».
Allora che risposta si dà?
«Mio padre aveva rapporti quotidiani con la Questura. Non vorrei che gli fosse scappato detto qualcosa di generico. Papà aveva detto che gli sembravano modalità militari quelle della banda della Uno Bianca. Magari quella frase, che non aveva un destinatario diretto, è finita alle orecchie di qualcuno. Che lo ha detto ai Savi. Ed è successo quello che è successo».
Ora i Savi potrebbero uscire.
«A noi interessa non solo che siano rispettate le leggi, ma anche che non vengano superate le soglie della decenza».
Valerio Baroncini