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«HO INCONTRATO l’Africa, o forse è meglio dire che l’Africa è venuta a cercarmi». Girolamo Asta, 50 anni, è imolese, ma non ha mai interrotto il suo filo diretto con il continente nero, dove ha vissuto dal 1998 per un lungo periodo, e che ha cambiato la sua vita. Un’esperienza durata sei anni, di ricerche e svolte importanti, a contatto con un popolo più simile al nostro di quanto si possa pensare.
Come mai ha deciso di partire per l’Africa?
«Ho aderito ad una proposta di lavoro, ho venduto appartamento e moto e sono partito per Nairobi. In Somalia mi sono occupato di un progetto formativo per ex guerriglieri che, in accordo con l’Unione Europea, barattavano armi in cambio di percorsi di apprendimento. Il loro obiettivo era ricostruire un tessuto economico di produzione e scambio negli ambiti di pesca e agricoltura».
Com’era l’ambiente nel quale lavorava?
«Poco sicuro: combattimenti, rapimenti, guerriglie. L’anno successivo fui spostato nel vicino Kenya a lavorare su un altro progetto dell’Unione Europea. L’ambiente era più tranquillo, eppure io vivevo un profondo disagio interiore, fino a quando, nei miei girovagare, sono approdato in un villaggio chiamato Machaka. Davanti al degrado e alla sofferenza in cui vivevano gli abitanti, ho sentito il bisogno di mettermi in gioco».
Da dove è partito?
«Ho iniziato collaborando con una piccola missione locale nata per dare sostegno ad un gruppo di ragazze madri. In cerca di un’idea, che stentava ad arrivare, mi sono posto cinque domande fondamentali, che restano per me dei pilastri per raggiungere obiettivi apparentemente impossibili. 1) Dove mi trovo? 2) Cosa voglio realizzare?; 3) Quali risorse ho a mia disposizione?; 4) Che strategie posso adottare?; 5) Quali sono gli indicatori che mi diranno di avere raggiunto l’obiettivo? E’ un approccio che allontana la trappola delle bugie che ci raccontiamo davanti a difficoltà che ci sembrano insormontabili. ‘In fondo le cose non cambiano nonostante le buone intenzioni…’, oppure: ‘tanto, per quanto io possa fare, è solo una goccia nel mare…’. ».
Anche nella popolazione di Machaka ha riscontrato questa tendenza?
«Più che mai. Infatti è un tipo di modello comportamentale diffuso tra gruppi sociali in stato di disagio che fissano nella loro mente un’ineluttabilità del destino, senza accedere alla possibilità di migliorare la propria esistenza. Questo non fa che alimentare atteggiamenti statici e negativi».
A questo punto in che modo ha pensato di intervenire?
«Ho iniziato ad utilizzare una sorta di ‘mappa’ per conoscere il modus operandi delle persone. Mi è servito a rimuovere alcuni meccanismi mentali, trasformandoli poi in nuovi significati. Ho messo le ragazze nella condizione di sperimentare qualcosa di lontano dai loro schemi abituali».
In pratica che cosa è successo?
«Grazie alla collaborazione di un artigiano conosciuto in Italia, ho portato a Machaka alcuni grossi telai di legno costruiti appositamente. Dopo un lungo periodo di lavoro con le donne del posto, tra colloqui motivazionali e formazione, siamo riusciti ad avviare un’attività di produzione e commercio di tappeti. Un risultato inaspettato».
Esiste ancora questo progetto di aiuto?
«Certo, è nata una onlus, African Looms (www.africanlooms.org). ‘Ora abbiamo la percezione che le nostre vite valgano molto di più’. Questo mi hanno detto le ragazze quando sono partito per tornare in Italia, ed è stata la mia soddisfazione più grande».
Ha perfezionato il metodo nato da questa esperienza?
«Sì, oggi è diventato il mio strumento di lavoro. L’Italia è piena di potenzialità nascoste, persone capaci e talentuose, ma ‘zavorrate’ da convinzioni rinunciatarie e limitanti. Per cambiare in meglio le situazioni occorre prima imparare a riconoscere e a sfruttare la propria energia senza farsi ingannare da ciò che internamente ci frena, ci autolimita. Il ‘coaching’, l’allenamento quotidiano che ha agito sulle ragazze di Machaka, trasformando la loro passività in desiderio di cambiare, ora lo applico su imprenditori, manager, sportivi, genitori, adolescenti, professionisti, spesso ingabbiati nelle loro credenze di non riuscita».
Mary Pantano