2013-11-24
di LETIZIA GAMBERINI
E’ STATO il protagonista assoluto di questa edizione del Baccanale, che l’ha innalzato a ingrediente principe della tavola. Decisamente una bella vetrina per il vino imolese e per i produttori, sempre più consapevoli di «una risorsa fondamentale per il turismo». La pensa così Marco Nannetti, presidente Comitato Colli d’Imola Doc, che raccoglie una quindicina di aziende. E, soprattutto, identifica sulla carta geografica un territorio e la sua vocazione vinicola.
Nannetti, questo è stato il Baccanale del vino. Era ora?
«Siamo molto soddisfatti di tutte le iniziative di cui siamo stati protagonisti, a partire dalla bottiglia del Baccanale, bevuta anche in occasione della premiazione di Michael White».
I produttori erano molto contenti della location del Banco d’assaggio, nei musei di San Domenico.
«In effetti abbiamo registrato un aumento a due cifre rispetto all’anno scorso (in Sala Miceti, ndr). Siamo arrivati a circa 700 ingressi, contro i 500 del 2012».
C’era bisogno di un evento così in una regione che spesso è nota soprattutto per la gastronomia?
«E’ il contrario. E’ il vino a trainare la gastronomia locale. E questo perché il vino ha in sé la storia del territorio. Se penso al paesaggio imolese mi vengono in mente i filari sulle colline. Finalmente il vino è stato al centro di un evento e non possiamo che ringraziare l’amministrazione comunale. Ora speriamo che ci sia una reciproca valorizzazione fra tutti i protagonisti del territorio».
Cioé?
«C’è bisogno di lavorare in modo sinergico con la ristorazione locale. Se vi va in regioni come la Toscana o il Piemonte, nella carta dei vini ci sono quasi solo quelli locali. Da noi non è così».
Lei parla di collaborazione, esiste anche fra i produttori locali?
«A Imola la cooperazione è scritta nel nostro Dna. Guardando ai cambiamenti degli ultimi anni, sì, fra i produttori è aumentata la consapevolezza di fare parte di un territorio».
La Doc esiste dal 1997, ma per molti il vino romagnolo è ancora più sinonimo di quantità che qualità. Cosa è cambiato?
«Per anni la Romagna ha sbagliato. Un tempo il reddito veniva soprattutto dalla frutta, poi le cantine sociali distillavano il vino. Ci siamo adagiati, anche ‘per colpa’ di un terreno incredibilmente fertile, ma negli ultimi 20 anni si è invertita la rotta e ora i prodotti ci sono. Bisogna ancora lavorare sulla comunicazione però».
Oggi il termine ‘Colli di Imola’ cosa racconta?
«Una nicchia di mercato, che rappresenta un elemento di punta nel panorama regionale: 600mila bottiglie (su 6 milioni di ettolitri) per un fatturato di 2 milioni e mezzo di euro. E una realtà aperta soprattutto alla ristorazione di ampia gamma».
C’è un vino su cui avete particolari aspettative?
«Ha un nome e un cognome. Il Pignoletto. Abbiamo già presentato la domanda in Regione per il riconoscimento di una Doc unica. Speriamo esista già la Doc Pignoletto dalla vendemmia 2014».
Le prospettive per questa annata?
«Rispetto agli ultimi due anni siamo riusciti a unire qualità e quantità. Ci aspettiamo molto dai vini bianchi e dai rossi giovani».