Imola, 18 gennaio 2014 - «Tutto ciò che si fa per amore, presto o tardi porterà i suoi frutti; anche se non li vedremo su questa terra». Monsignor Francesco Giacometti (foto) lo disse al Carlino nel settembre 2005, al termine dei suoi 17 anni da vicario generale della Diocesi. Non è più «su questa terra», don Francesco: si è spento in ospedale nel pomeriggio di giovedì (l’8 gennaio aveva compiuto 88 anni), portato via dalla lunga malattia che lo aveva trascinato in un mondo ovattato e lontano. Per lui è il momento di trovare tutti i frutti cresciuti in 65 anni di sacerdozio.

Da quando, nel 1952, il vescovo Paolino Tribbioli lo mandò nella ‘rossa’ terra di Sesto Imolese. Diciott’anni in prima linea. «Gli anni migliori del mio sacerdozio — così raccontava —; la gente ha capito che le volevo bene e che facevo le cose con amore, e anche che non facevo nulla per soldi perché non ne avevo mai». Il «momento più duro» è arrivato nel 1976, quando il non più giovane parroco fu inviato per un anno a San Giovanni Nuovo, dove si era consumata la lacerazione fra la Chiesa ufficiale e la comunità di base di Cleto Zaniboni. Giornalista e scrittore, Giacometti ha commentato quell’esperienza in un suo libro (‘Di chi è la Chiesa? Il difficile cammino della comunità di San Giovanni Nuovo’) e di quell’esperienza non amava parlare senza approfondire. «Per rispetto alle persone — diceva —. Di errori ne sono stati fatti, da parte di chi ha provocato la rottura nella Chiesa, ma ne sono stati fatti anche da altre parti». Una vita piena, quella del prete partito dalla trincea di Sesto Imolese («Ero lì quando morì Stalin e i comunisti misero fuori i segni del lutto») poi diventato monsignore e vicario generale del vescovo.

Don Giacometti ha insegnato nelle scuole pubbliche, è stato assistente generale dell’Azione Cattolica, ha diretto il settimanale ‘Il nuovo diario messaggero’. E si è occupato anche di esorcismi. «Mi è capitato un paio di volte, ma in entrambi i casi ebbi l’impressione che a quelle persone servisse un medico, non un esorcista», raccontava con un certo disincanto e con spirito laico. Il parroco l’ha fatto anche da ottantenne: l’ultimo incarico nel 2003 a Chiusura, e lui avanti e indietro da pendolare fra la campagna e la sua abitazione in centro, accanto al Vescovado. «Ho trovato un mondo cambiato», ragionava. Ma restava sulla breccia, con il suo sorriso, le battute sottovoce e il basco in testa. In fondo l’aveva dichiarato nel suo ultimo giorno da vicario generale: «Se la forza me lo permetterà, non mancherà certo il lavoro nella casa del Signore. A forze in difficoltà, le ginocchia piegate nella preghiera possono dare frutti sicuri per sé e per i fratelli». E nella stessa intervista aveva fotografato così il suo spirito: «Ho sempre gioito nel momento della ‘vittoria’. Non mi sono sentito definitivamente sconfitto nell’insuccesso». Sorrideva, don Francesco, e le forze l’hanno accompagnato a lungo.

Quando le difficoltà sono diventate pesanti, si è rifugiato alla Casa del clero accanto alla chiesa dei Servi, dove immaginiamo le sue «ginocchia piegate nella preghiera». Fino a poco prima aveva collaborato con il Carlino curando la rubrica della domenica in cui commentava le letture proposte dalla liturgia. Arrivava in redazione con il suo floppy: «Guarda, mi raccomando... va bene?». E a Natale con i regalini: era contento e anche un po’ imbarazzato. Le piccole Natività che aveva scelto per noi restano un tenero ricordo.

Lidia Golinelli