Imola, 1 maggio 2014 - Ha visto morire Senna da cinque metri. Nessuno era più vicino di Paolo Tommasini, quel 1° maggio del 1994 sul circuito di Imola. Insieme con l’amico Natalino Tugnoli, Tommasini fu il primo ad arrivare tra i rottami della Williams, dopo lo schianto al ‘Tamburello’. Non lo dimenticherà mai: «A casa mia, da vent’anni non vediamo l’ora che arrivi il 2 maggio, perché vuol dire che l’1 è passato. Non è un bel giorno, per noi». Eppure, nonostante un lungo processo, nessuno ha mai pensato di chiedere a Tommasini che cosa avesse visto, lui che era uno dei due testimoni oculari più vicini. «E’ la prima volta che ne parlo, da allora. Lo faccio solo perché è giusto, anche se mi fa male». Oggi Tommasini ha 75 anni, fa il meccanico a Villanova di Castenaso ed è in formissima, fuori. Dentro si porta un peso che il tempo non ha ancora alleggerito. Quel giorno a Imola era uno dei due ‘angeli’ ai quali la Cea, la società che gestisce la sicurezza negli autodromi, aveva affidato la sorveglianza sulla curva del destino. «La nostra postazione al Tamburello era a cinque-sei metri dal muretto dell’incidente. Arrivamo in pochi secondi, e subito dopo arrivarono i medici».

Tommasini, lei che cosa fece?
«Io ero l’autista della squadra. Salimmo in macchina e ci portammo subito sul luogo dell’incidente con gli estintori. Il nostro compito era quello di impedire che l’auto prendesse fuoco».
E i soccorsi?
«Non eravamo autorizzati a toccare il pilota, ma i medici arrivarono pochi secondi dopo».
Senna era già morto?
«Non lo so, ma non si muoveva. Ho visto il casco, e non c’era sangue. L’hanno tirato fuori dall’abitacolo, l’hanno sdraiato sulla barella e l’hanno portato via».
Che idea si è fatta dell’incidente?
«E’ difficile, quando ci siamo accorti che era uscito di strada, eravamo già circondati dai rottami, c’erano pezzi della macchina dappertutto. Posso dire che non ho visto segni di frenata, credo che in quel momento Senna andasse ad almeno 250 chilometri all’ora».
Le hanno mai chiesto di raccontare?
«No. Penso che al processo abbiano sentito i vertici della Cea. A me nessuno ha mai chiesto niente, e prima di oggi non ho mai parlato neanche con i giornalisti».
Che cosa ricorda di quel giorno?
«Che non c’era allegria, non c’era entusiasmo. Il giorno prima ero in un’altra postazione, alla curva Villeneuve. Era morto Ratzenberger, e anche durante il warm up si capiva che non c’era il solito spirito. Noi abbiamo sempre fatto il nostro lavoro per passione: dopo l’incidente di Senna non vedevamo l’ora che finisse la gara».
Lei si è occupato di sicurezza in centinaia di gare.
«Ho iniziato nel ‘69, ho smesso cinque anni fa perché avevo raggiunto l’età limite. Dopo non ho più voluto vedere una corsa dal vivo, ma per 40 anni, ogni volta che c’era una gara io ero lì, da Imola a Pergusa, dal Mugello a Misano. Ero a Monza nel ‘78 quando morì Ronnie Peterson. Quando succedono incidenti così, è come se si spegnesse tutto».
Lo conosceva, Senna?
«Ci eravamo sfiorati ai box tante volte, ma mai stretti la mano. Con altri piloti ho avuto più confidenza, Barrichello era il mio preferito, anche Schumacher era bravo, ma era più freddo».

Doriano Rabotti