Imola, 1 maggio 2014 - SONO PASSATI vent’anni da quel maledetto weekend sul circuito di Imola ma i ricordi, quelli condivisi e quelli personali, sono ancora lì davanti agli occhi di tutti scolpiti da un dolore che talvolta, sempre meno per fortuna, si affaccia sulle vite degli uomini che si danno battaglia a trecento all’ora. Ma quel primo di maggio del ‘94, millennio scorso, la perdita fu più grande, il dramma più acuto, il dolore più forte. Te lo saresti aspettato per tutti, per lui no. Senna non poteva morire. Era il più bravo, il più bello, il più gentile, il più coraggioso; era il più abile sul bagnato come sull’asciutto. Aveva la sensibilità del meccanico nel preparare la vettura e la lievità di una colomba nel guidarla. No, lui no.

Ad aspettarlo il destino sceglie le protezioni del grande muro alla semicurva del Tamburello, una lunga ma morbida piegata a sinistra che si prende alla stessa velocità del rettilineo dei box. In pochi pensano a una gravità fatale. La corsa, la corsa maledetta riprende. La gente della Formula Uno conosce il rischio e al peggio non ci pensa, quasi a esorcizzarlo. Mancano pochi giri alla fine, mi avvio verso il grande sottopasso della pista che dall’esterno porta all’interno del circuito, prima che lo chiudano per la premiazione. Da anni sono abituato così, non posso rimanere intruppato nel ritorno di tutta quella gente, c’è il giornale, con i suoi ritmi, ma soprattutto i suoi tempi, che aspetta. Questa volta, penso però, è il primo maggio, potrei andare più tranquillo tanto non si lavora.

È uno di quei pochissimi giorni dell’anno in cui la gente della carta stampata vive una vita uguale a quella degli altri. Queste cose sto pensando poco prima di entrare sul piccolo campo di calcio dove mi attende una giovane hostess incaricata di affidarmi all’elicottero. Guarda il pass, il nome e mi chiede di seguirla: improvvisamente però il suo viso si riga di lacrime e scoppia in un pianto straziato e straziante. Sono imbarazzato, stupidamente non penso alla corsa, e le chiedo se possa fare qualcosa per lei. Mi guarda, scuote la testa e convulsamente recita una terribile cantilena. «È morto Ayrton, è morto Ayrton, capisce? È morto Ayrton». Non saprò mai se lo sapesse, se lo immaginasse, se lo temesse, ma comunque fosse quel pianto mi è rimasto dentro per tutti questi vent’anni. Ed è ancora lì, come allora.

CON IL PESO nel cuore e all’oscuro di notizie, mi accorgo che il cellulare suona: un miracolo in quel frastuono di pale rotanti. Sento la voce di Andrea Riffeser Monti, l’editore di questo giornale, il mio editore, che mi suggerisce come sia assolutamente il caso di fare un’edizione straordinaria: per i nostri lettori, ma anche per celebrare l’eccezionalità di quella scomparsa. Gli rispondo che mi piacerebbe, ma è il Primo maggio e la gente del giornale, nella maggior parte dei casi, lascia la città con la famiglia, quella famiglia che, lavorando di notte, a fatica vede nei giorni normali.

«Lo so — mi risponde come infastidito — se si deve fare e si deve fare, la facciamo. Lei pensi a convocare i giornalisti, io avverto la tipografia. Domani il Carlino deve essere in edicola. Forse saremo gli unici». E così fu.
Alla spicciolata arrivano tutti quelli che siamo riusciti a raggiungere e sveltamente facciamo un giornale che si trasforma in vanto pur in quel giorno di tragedia: soprattutto per Leo Turrini che da Imola lo scrive quasi per intero, mentre io ho la sbadataggine di non citarlo nella vetrina. Cosa della quale ancora mi vergogno.

Ricordo che non si avevano foto dell’impatto perché la curva del Tamburello è proibita ai reporter: Riffeser ci rimane male, uno sforzo tanto importante senza un’immagine, ma quegli occhi di Senna dentro il suo casco verdeoro, grandissimi in prima pagina, avrebbero fatto il giro del mondo.