Imola, 1 maggio 2014 - «NO, NON PUÒ essere vero. Ayrton è un mito e i miti sono eterni. Non può morire così». Vent’anni fa ero anche io tra i milioni di telespettatori che hanno assistito alla tragedia di Senna in diretta tv. Ero un 15enne super tifoso della Ferrari e della Formula Uno, con il grande sogno di vedere il brasiliano correre sul Cavallino rampante. Lo consideravo il numero uno, l’imbattibile, più forte di tutti e tutto. Invece quello schianto, le scene dei soccorsi e quell’annuncio che nessuno mai avrebbe voluto sentire: Ayrton Senna è morto. Una morte che sembrava lo stesse accompagnando già dal suo arrivo a Imola. Lui, sempre sorridente e sereno, si era fatto, già dal venerdì, cupo, preoccupato, quasi consapevole del suo destino.

LO SCHIANTO di Barrichello, la morte di Ratzenberger rimasto immobile nel suo bolide gli oscuri presagi di una fine incombente, in un weekend di sangue che resterà scolpito nella storia della Formula Uno e nella memoria di chi da casa vi ha assistito. Ricordo quell’improvvisa sensazione di smarrimento che mi prese, lo sguardo impietrito dei miei genitori, le telefonate con gli amici: «E’ stato un brutto schianto — ci dicevamo — ma l’abitacolo è abbastanza intatto. Può salvarsi». Tutto sotto gli ‘occhi’ delle telecamere.

UNA SENSAZIONE terribile che riprovai, ancora più amplificata, sette anni dopo: l’undici settembre 2001 quando, ancora smarriti e increduli, sempre in diretta tv, vedemmo quel secondo aereo schiantarsi contro la torre gemella che ancora non era stata colpita. Il primo maggio e l’undici settembre. Due date che difficilmente dimenticheremo. La prima perché ha chiuso un’era della Formula Uno portandola a migliorare a renderla più sicura per i piloti — con l’autodromo di Imola che, però, non fa più parte del circus — la seconda perché ha cambiato per sempre il mondo. Due episodi che ci hanno fatto capire come anche chi sembra così forte e così invincibile in verità è fragile e vulnerabile come tutti gli altri.

Marco Signorini