SE CI riesce l’Eni, perché non dovrebbe riuscirci l’Italia? In Libia la compagnia petrolifera italiana controllata dal Tesoro produce più o meno serenamente oltre 300mila barili di petrolio al giorno, più di quanti non ne estraesse prima della sconsiderata cacciata di Gheddafi. Come fa è presto detto: rifornisce di gas l’intero paese e paga un po’ tutte le tribù locali. Anche quelle islamiste affiliate ad Alba libica, ma soprattutto quelle legate al governo di Tripoli, sul cui territorio sorgono buona parte dei giacimenti. E funziona. In Libia l’Eni lavora come nulla fosse, mai subito attentati o danni agli stabilimenti né alle condotte. Esistono dunque una rete, un sistema di relazioni, una serie di canali aperti. Degli interessi e dei commerci, dei debiti e dei crediti. Se l’Eni li mettesse al servizio della politica, i vantaggi potrebbero essere notevoli. Si potrebbe mettere nei patti anche il contrasto al traffico di clandestini, e, se ci si riuscisse, bisognerebbe poi ripensare radicalmente il nostro iniziale approccio alla crisi libica. Su modello dell’Egitto (modello pessimo, visto che gli americani si sono già pentiti di aver messo in sella il generale al Sisi e non sanno come sbarazzarsene), l’Italia ha scelto di interloquire solo col governo di Tobruk rappresentato dal generale Haftar.
LA CAUSA risiede nel fatto che in Libia non c’è un governo legittimo capace di controllare il territorio. Si può continuare a perseguire il sogno dell’unità nazionale o si può decidere di trasformare la Libia, che è tutto tranne una nazione, in una confederazione dove i clan maggiori abbiano la loro fetta di sovranità. In ogni caso, l’iniziativa dev’essere italiana e per riuscire nell’impresa l’Italia avrà bisogno della piena sintonia con l’Eni. Una sintonia politica. Una sintonia che un tempo era la regola, ma che ora rappresenta l’eccezione.
di Andrea Cangini