L'inutilità dei manager

di Andrea Cangini

NON disponendo di politici candidabili con qualche speranza di successo, Silvio Berlusconi sostiene che a svolgere le funzioni di sindaco debbano essere «i manager». Gente di esperienza, insomma. Torna alla mente una delle sue prime interviste. Si era da poco consumata l’inattesa ‘discesa in campo’ e nel tentativo di chiarire la natura di quell’oggetto politico ancora misterioso Giuliano Ferrara nel corso di un’intervista al Foglio gli chiese che idea avesse dell’Italia, quale fosse il suo sogno. «Ne voglio fare una grande Mediaset», rispose Berlusconi. Otto mesi dopo fu costretto a rassegnare le dimissioni da premier.

La politica è un’altra cosa. Non è un mestiere come gli altri e non è detto che un imprenditore di successo sia anche un bravo politico. La storia ha più spesso dimostrato il contrario. Che occorrano capacità manageriali (all’occorrenza supplite da uno staff efficiente) non c’è dubbio, che le capacità manageriali possano bastare è escluso. Occorrono esperienza politica, conoscenza della macchina pubblica, un disegno complessivo di potere, un’idea della società a cui si rivolge. Per un premier occorre anche una visione internazionale e per tutti, presidenti del Consiglio e sindaci, occorre il carisma e occorre l’intuito. Perché la politica, diceva Francesco Cossiga, «è un’arte».

PERCIÒ l’essere manager, di per sé, non significa nulla. Anzi, è un handicap, perché è vizio diffuso tra gli imprenditori e tra i manager il dare troppa importanza alla ragione, al calcolo razionale. Ai numeri. Alla logica. La politica è invece tutto il contrario: vive di sentimenti, di irrazionalità, di simboli, di giochi del Caso e di echi della Storia. La politica evoca, non dice. MA SE per assurdo si decidesse invece che questa storia del manager-sindaco è una buona idea, chi mai si presterebbe alla bisogna per puro spirito di servizio senza essere in realtà il terminale di una catena organizzata di interessi speculativi? Il sindaco di Roma, la capitale del mondo, guadagna 4500 euro al mese. Un buono stipendio, certo, ma pur sempre lo stipendio di un dirigente pubblico di media fascia, di un direttore di banca, di un avvocato semifallito. Eppure il sindaco di Roma guida un’azienda da tre milioni di persone. E dopo cinque anni non ha alcuna garanzia di mantenere il lavoro. Fosse un manager di una grande azienda privata guadagnerebbe almeno dieci volte tanto. E’ perciò lecito domandarsi perché mai un manager che vale qualcosa, uno che sta sul mercato, dovrebbe accettare di sfidare le elezioni sperando di diventare sindaco con la certezza di guadagnare un decimo di quello che potrebbe. Per la gloria? Più facile il martirio. Qualsiasi sindaco, ma soprattutto il sindaco di una grande, complessa e compromessa città come Roma, rischia concretamente la vita, la reputazione, la galera. Errori fatali, agguati politici, scandali, passi falsi mediatici, resistenze burocratiche, inchieste giudiziarie. Basterebbe il rischio, quasi la certezza, di doversi inesorabilmente ritrovare stretti in un ingranaggio giudiziario per far desistere anche il candidato più motivato, purché raziocinante. Restano pertanto solo i falliti, quelli che non hanno le qualità per sfondare altrove. E gli esalatati. I narcisi politici: i Masaniello, i Savonarola, i Cola di Rienzo. Gente che di solito fa anche una brutta fine. Maglio i politici, allora. I politici alla vecchia maniera, però, quelli cresciuti nella lotta politica e nell’amministrazione pubblica: gente che ha fatto militanza giovanile, poi il consigliere circoscrizionale, comunale, provinciale, regionale e infine, dopo lunga attesa, il parlamentare. E lì di nuovo la gavetta fino al rango, eventualmente, di ministro. 

C’È SOLO un problema: per ottenere tutto questo, per formare una classe politica, motivarla, selezionarla e farla crescere, servono i partiti. Ma i partiti sono in crisi ormai da tempo, e non tanto per mancanza di soldi quanto per mancanza di motivazioni ideali. Ricostruirli riempiendoli di uomini e di idee sarebbe necessario, ma appare oggi un’impresa tanto inattuale quanto titanica.

A VOLERLA far completa, poi, oltre ai partiti occorrerebbero anche delle scuole politiche. Delle accademie qualificate ed esclusive che formino l’élite di governo e dell’amministrazione pubblica. E’ ormai un modo di dire, ma è vero: un’Enà italiana sarebbe davvero una gran cosa. Una grande opera pubblica. Un’opera assai più urgente e imponente del famigerato ponte sullo stretto di Messina. I soldi, quando si vuole, si trovano. Sarebbe infine d’aiuto anche una qualche componente ideale, un forte patriottismo o una qualsivoglia fede politica. Ma pare a questo punto davvero di chieder troppo.