Martedì 16 Aprile 2024

La Consulta e l'Italia

Andrea Cangini

QUANDO Enzo Tortora si dimenava impotente nell’ingranaggio giudiziario che l’avrebbe stritolato, Alessando Criscuolo presiedeva l’Associazione nazionale magistrati. Mai un dubbio, mai un’esitazione. Criscuolo si schierò anima e corpo dalla parte dei pm che, senza la benché minima prova, fecero arrestare l’inventore di Portobello con l’accusa di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Tesi tanto infamante quanto inverosimile. «Lo sanno tutti che Tortora è stato eletto con i voti della camorra», scandì in aula Diego Marmo. Un’accusa autoreggente. Un’accusa fondata non su indagini di polizia, ma su un presunto sentimento popolare. Roba da Santa inquisizione, roba da processo a Gesù. Quando, in fiera solitudine, i radicali si azzardarono a criticare le parole del pm Marmo, a nome dei magistrati d’Italia Criscuolo scandì: «Il Partito radicale sta tentando di condizionare con reiterati e gratuiti attacchi alla magistratura napoletana il processo contro la camorra di Cutolo». Ma Pannella e compagni non condizionarono alcunché e quattro mesi dopo Tortora venne condannato.

OGGI, Criscuolo è presidente della Corte costituzionale, ma non per questo sembra essersi affrancato dal vecchio approccio sindacalista e corporativista. Infatti ha dichiarato illegittimo il blocco degli stipendi dei magistrati disposto dal governo, pur legittimando quello a carico dei diplomatici, dei professori universitari e dei finanzieri. Guida un organo costituzionale, ma lo spirito di leale collaborazione tra istituzioni nell’interesse generale non lo sfiora. Perciò difende la sentenza con cui la Consulta ha smontato la legge Fornero che bloccò l’indicizzazione delle pensioni. Una sentenza che ha aperto una voragine nei conti pubblici. Ieri, con un’intervista a Repubblica, Criscuolo ha respinto le accuse argomentate sul nostro giornale da Augusto Barbera e Sabino Cassese. Due gli argomenti. Il primo è che «non spetta alla Corte garantire l’applicazione» dell’articolo 81 della Costituzione, quello che impone di tenere il bilancio pubblico in pareggio. Ma se il rispetto della Costituzione non spetta alla Corte costituzionale, a chi mai dovrebbe spettare? Mistero. Criscuolo dice anche che «la Corte opera come un giudice» e che pertanto non era tenuta a documentarsi sulla situazione dei conti pubblici, né deve curarsi del contesto e delle conseguenze delle proprie sentenze. Dottrina e prassi dicono il contrario: con un’ordinanza, la Consulta può acquisire qualsivoglia dato, anche quelli come in questo caso arcinoti; gli organi costituzionali dovrebbero tenere sempre conto dell’equilibrio complessivo del sistema. Qualche dubbio, però Criscuolo deve averlo.    INFATTI cerca di scaricare la responsabilità della sentenza sull’avvocato dello Stato Giustina Noviello, che ha infruttuosamente difeso davanti alla Consulta le scelte dell’allora governo Monti e l’odierno interesse nazionale. Ma i limiti della Noviello, che nei giorni scorsi abbiamo denunciato con grande evidenza, non oscurano i limiti di Criscuolo. Un uomo che, per spirito corporativo, irresponsabilità e tendenza allo scaricabarile, è la perfetta metafora dell’Italia. Un Paese diviso in orticelli separati da alti muri.