Macerata, 27 gennaio 2010 - "Quello che ho passato io non lo auguro a nessuno. Spero davvero che non succeda mai più. Voi giovani dovete far in modo che non succeda mai più. Questo è l’appello che mi sento di fare".

 

Parla con sentimento Eliso Grandoni, 89 anni, di Fiuminata, quando racconta la 'sua' seconda guerra mondiale, alla vigilia del 'Giorno della memoria', istituito nel 2000 per ricordare gli anni della Shoah, della persecuzione degli ebrei, delle deportazioni a cui anche migliaia di cittadini italiani sono stati sottoposti. Anni passati con la divisa dell’esercito italiano indosso.

 

Un costume che voleva dire 'Patria', ma che dall’8 settembre 1943, giorno dell’armistizio siglato dal generale Badoglio con gli Alleati, si è trasformato in un boomerang per i nostri militari. "Era il 16 settembre 1943 - continua Grandoni - e mi trovavo a Fiume, al confine con l’ex Jugoslavia. Da un giorno all’altro avevamo saputo che era stato firmato l’armistizio. Poi sono arrivati i tedeschi. Ci hanno chiesto collaborazione, ma per noi la guerra era finita e così ci siamo rifiutati".

 

Ma i nazisti, quel rifiuto, non lo hanno accettato e così Eliso è finito in manette, catturato da quegli stessi soldati con cui, fino a poche settimane prima, combatteva fianco a fianco. E come lui migliaia di nostri connazionali che, lontani dai palazzi della politica e immersi nelle trincee, si sono trovati spaesati da un armistizio che li rendeva nemici di tutti e amici di nessuno.

 

"Mi hanno portato nel campo di concentramento di Wietzendorf, in Germania - dice ancora Grandoni -. Sono stati anni durissimi. Mangiavamo una volta al giorno. Ci davano un po’ di crauti, un paio di patate e del pane scuro, quasi nero, e duro come la creta. La sera ci davano del tè, ma tra il freddo e la fame si faceva davvero fatica ad arrivare alla mattina dopo. Tanti non sono tornati. I morti li caricavano sulle 'cacciatore', una specie di carretto, e poi li portavano in fosse comuni".

 

Eliso, invece, quel dramma è riuscito a superarlo e come lui il signor Balilla Bolognesi, anche lui 89enne di Esanatoglia: "Ho fatto la guerra nel reparto del Genio. Appena saputo dell’armistizio sono scappato perché c’era il pericolo delle rappresaglie tedesche. Sono riuscito a nascondermi per alcuni mesi, ma poi in tutte le Marche sono cominciati i rastrellamenti nazisti e, come me, tantissimi giovani sono stati deportati nei campi di lavoro".

 

"Io - continua - ho passato un anno a Kahla, nel distretto dove veniva costruito il primo aereo a reazione della storia, l’Me262. Lavoravamo tutto il giorno e spesso anche la notte per costruire strade, bunker, piste di atterraggio. Era una vita terribile. Per tutto il tempo ho indossato sempre gli stessi vestiti, sia d’estate che d’inverno, col sole o con la neve. Ci inventavamo di tutto per proteggerci dal freddo; mettevamo i sacchetti del cemento dentro gli zoccoli in modo da ripararci un po’".

 

Una vita terribile che ha portato via seimila persone dall’abbraccio dei loro cari, solo nel campo dove era prigioniero il signor Bolognesi. "E’ necessario far sapere a tutti quello che è successo in quegli anni - conclude - soprattutto nelle scuole e ai giovani per far sì che quel dramma non accada mai più".