Macerata, 21 dicembre 2012 - LEI CI HA PROVATO. Ha cercato di seppellire in fondo al cuore, spiega, il mostro che la stava divorando, le scene della violenza subita da quell’uomo, missionario e africano come lei, che aveva carpito la sua fiducia prima di abusare anche del suo corpo. Entrambi si trovavano in Italia, diciamo a Roma. Le congregazioni religiose li avevano richiamati temporaneamente dalle rispettive missioni, aree dove il fronte dell’emergenza umanitaria è caldissimo, dove si vive con meno di un dollaro al giorno e si muore per strada — di tutto, anche di cose di cui da noi si moriva nell’Ottocento — e arrivare a 45 anni di vita rappresenta un traguardo. Bisogna calarsi in questi mondi lontani per comprendere la tragedia che ha vissuto la suora-madre di cui il nostro giornale ha raccontato la storia di dolore e di speranza. Perché la cultura mediata dai Paesi d’origine, imbrigliata nelle ferree regole degli Ordini religiosi, è uno sfondo da cui non si può assolutamente prescindere: prima il dramma della presunta violenza, poi la forza dirompente con cui la religiosa, spogliatasi dai voti, sta difendendo il proprio diritto alla maternità, per ora negato con un formalismo dalla Giustizia minorile.

HA PROVATO a dimenticare. A stringere i pugni, chiudere gli occhi e andare oltre, come le avevano suggerito le superiore. Le è perfino passato per la testa di fare quella cosa che le donne africane non fanno quasi mai per indole e cultura, cioè ribellarsi e denunciare chi aveva brutalmente violato la sua intimità. Ma se tutto ciò è quasi impensabile per una donna africana, diventa impossibile se la donna è anche suora, con l’obbligo dell’ubbidienza e del silenzio. Certe situazione si risolvono così: il missionario che l’avrebbe abusata è stato rimandato nella sua missione. E la suora, in silenzio, ha ubbidito a chi le aveva detto di dimenticare. Chi la conosce bene sa che è una donna attiva nella sua comunità, con un ruolo di primo piano nell’assistenza, in ospedale. Le era insomma riconosciuto il carisma sociale del capo tribù. Nel mondo che le è crollato addosso, insieme col dolore per ciò che aveva subito, c’era pure la perdita del proprio ruolo nella società. Per non rinunciare alla sua vita si era convinta che fosse meglio tacere, ma la gravidanza le ha impedito di nascondere il dramma che aveva vissuto. Così ha dovuto farsene carico e affrontare la nuova realtà.

E’ STATO un percorso durissimo. I primi tempi arrivò a pensare a una forma di menopausa precoce, o a una amenorrea, poi l’evidenza ha preso il sopravvento. Aveva dedicato la sua vita al Signore. Ha dovuto prendere atto di una realtà capovolta e che ha affrontato come un segno di Dio. E con la stessa determinazione ha trasformato il suo progetto di vita in un altro altrettanto forte. In poco meno di due mesi e mezzo ha scalato il baratro in cui era precipitata, riemergendo con una straordinaria determinazione di madre. Ha chiesto di riconoscere e riabbracciare la sua bambina, che il Tribunale dei Minori, dopo un’istruttoria di 10 mesi, le aveva concesso, attribuendole pienamente il suo ruolo di madre naturale. Ha potuto stringerla tra le braccia quattro volte nelle ultime due settimane, prima non aveva mai potuto perché per legge non conosceva la famiglia a cui era stata affidata.

L’OPPOSIZIONE del pm in Corte d’Appello gliel’ha strappata di nuovo quando il caso pareva giusto all’epilogo. Ora, solo fra un altro mese si saprà se questa bimba nata un anno fa all’ospedale di Pesaro potrà vivere con la madre naturale, oppure sarà data in adozione.

di Lorenzo Sani