Macerata, 30 gennaio 2014 - IL SOGNO di lavorare a New York è finito in un carcere del New Jersey per tre ragazzi maceratesi: «Eravamo partiti gasati a mille, pensavamo di trovare un lavoro anche per il futuro, e invece ci siamo ritrovati con le manette ai polsi, umiliati. Uno choc».

A raccontare la storia è la maceratese Gloria Lattanzi, 21 anni, che lavora ogni tanto al ristorante «Villa Cortese» di Treia. Lei, il fidanzato Jonathan Papapietro, ventenne di Corridonia, cuoco anche lui ora disoccupato, e un altro amico di Potenza Picena, avevano trovato un aggancio per lavorare in un ristorante di New York per tre mesi. Così hanno fatto documenti e biglietti e sono partiti prima di Natale. Hanno però commesso un errore: invece del visto per lavoro, hanno preso quello turistico. «Ma in realtà il nostro era un tentativo — racconta Giorgia —, dovevamo fare una prova al ristorante, e vedere se andava. Comunque, appena siamo scesi all’aeroporto Kennedy di New York, ci hanno indirizzato verso la dogana e hanno iniziato a controllarci. Subito ci hanno detto che i nostri documenti non andavano bene: credo che li abbia insospettiti il fatto che alloggiassimo tutti da una persona, e non in albergo. Poi hanno controllato le valigie, e quando visto le uniformi da cuochi ci hanno chiesto se eravamo lì per lavorare. Noi abbiamo risposto che volevamo fare un tentativo, ma non ci hanno creduto. A quel punto ci hanno perquisito ovunque, mi hanno anche fatto spogliare completamente, senza ovviamente trovare nulla. Ci hanno chiesto se avevamo precedenti penali, se stavamo scappando da qualcuno». Alla fine i ragazzi sono stati ammanettati, la ragazza no, e tutti e tre sono stati caricati su una camionetta e portati in carcere in New Jersey.

«IO ERO DAVANTI, loro dietro, perché non potessimo parlare. Non ci hanno detto che ci portavano in carcere, e quando ci siamo trovati lì eravamo sconvolti: siamo tutti ventenni, senza alcun tipo di precedente, non ci capivamo nulla, non ci hanno neanche chiesto se volevamo un avvocato o un interprete. C’era un poliziotto italiano che traduceva le nostre risposte, ma noi dicevamo “sì” o “no” e quello aggiungeva una serie di cose che noi non avevamo detto, e non capivamo. Mi hanno fatto cambiare completamente, ci hanno sequestrato tutto quello che avevamo e messo in carcere».

«Giorgia era da sola in cella — aggiunge Jonathan Papapietro —, noi due invece eravamo con due ergastolani messicani. Un incubo. Non abbiamo toccato il cibo, da bere invece dell’acqua ci hanno dato il succo d’uva, non ci siamo mai potuti lavare. E non abbiamo potuto chiamare nessuno fino a quando siamo stati lì».
«Poi, sempre con la scorta della polizia e le manette ai polsi — prosegue Giorgia —, dopo due giorni ci hanno riportato all’aeroporto e rispediti a casa. Eravamo umiliati, una vergogna incredibile: avranno pensato che eravamo dei criminali, e invece non abbiamo fatto proprio nulla. Quando poi, tornata in Italia, ho cercato di informarmi con l’ambasciata per capire cosa fosse successo, mi hanno dato alcuni nomi di avvocati di New York per seguire il processo, che sta andando avanti. E anche questo ora mi spaventa, perché non so come finirà. Per noi l’America era un sogno, una speranza anche per il lavoro, ora non possiamo rimetterci piede per non so quanto tempo, e senza un perché».

Paola Pagnanelli

Il racconto choc, leggi l''intervista: "Incarcerati come ergastolani messicani"