Macerata, 1 febbraio 2014 - IL SOGNO americano è finito in un carcere del New Jersey per tre giovani maceratesi. Poco prima di Natale, Giorgia Lattanzi, 21 anni, e il fidanzato Jonathan Papapietro, 20, con un loro amico, sono partiti per New York. Con il diploma dell’Istituto alberghiero in tasca, volevano provare a lavorare come cuochi. Si sono rivolti a un’agenzia, hanno fatto le pratiche e sono partiti per gli States. Ma appena atterrati all’aeroporto Kennedy di New York sono stati bloccati, perquisiti ovunque e accusati di aver violato le norme sull’immigrazione: avevano un visto turistico, invece di quello per motivi di lavoro. Con questa accusa sono stati portati in carcere nel New Jersey e trattenuti per tre giorni. Poi li hanno rispediti a casa, con il divieto di tornare negli Usa per dieci anni. Non hanno alcun documento riguardo le contestazioni che gli sono state mosse, non sanno come va il processo a loro carico.

L'intervista

"Non capita a tutti di essere chiamati per poter lavorare a New York. A noi sì, e volevamo provare: speravamo di trovare lavoro e cambiare vita, lasciando un paese dove per noi non c’è nulla. E invece siamo stati trattati come criminali, umiliati: tre giorni che non dimenticheremo». Per Giorgia Lattanzi e il fidanzato, Jonathan Papapietro, il sogno americano si è trasformato in un incubo.

Ragazzi, cosa vi è capitato?
Giorgia: «Avevamo un contatto per poter provare a lavorare in un ristorante a New York, e abbiamo deciso di provare».
Jonathan: «Lì ci sono più opportunità, qui neanche una. Io sono disoccupato, Giorgia lavora saltuariamente in un ristorante».

Ma cosa è successo quando siete arrivati?
Giorgia: «Alla dogana hanno cominciato a controllare i documenti, poi ci hanno accompagnato in una stanza a parte e hanno tirato fuori tutto dalle valigie. Quando hanno visto le uniformi da cuoco, ci hanno detto che eravamo andati lì per lavorare, pur avendo il visto solo per turismo. Ci hanno fatto spogliare e perquisito ovunque».

C’era un interprete?
Giorgia: «No, un poliziotto di origini italiane traduceva per noi. Ma non so cosa gli abbia detto, perché quando noi rispondevamo “sì” o ”no” lui faceva un discorso lungo, che non capivamo bene».

E poi cosa hanno fatto?
Jonathan: «Io sono stato ammanettato, Giorgia no. Ci hanno caricati su una camionetta, tenendoci lontani perché non potessimo parlare, e portati in carcere nel New Jersey. E lì è stato un incubo. Ci hanno sequestrato tutte le nostre cose, non abbiamo potuto chiamare nessuno e ci siamo ritrovati in cella. Lei era da sola, io con due ergastolani messicani. Ero devastato dalla sete, perché da bere ci davano solo il succo d’uva e non l’acqua. Anche il cibo era immangiabile».
Giorgia: «Ma figuriamoci se ci siamo lamentati: eravamo sotto choc. Non abbiamo mai subito denunce, arresti, non ne sappiamo niente di queste cose, eravamo frastornati e non sapevamo cosa fare, cosa pensare. Abbiamo venti anni».

Quanto tempo siete rimasti lì?
Giorgia: «Abbiamo passato due notti in carcere. Poi sempre con la camionetta della polizia ci hanno riportato all’aeroporto. Lì è stata una vergogna incredibile: eravamo sporchi, scortati dalla polizia, Jonathan ancora con le manette. Tutte le persone che erano lì, vedendoci così, avranno pensato che eravamo due criminali».

Vi hanno rilasciato qualche documento sull’arresto?
Giorgia: «All’inizio ci hanno fatto firmare un verbale e io ho chiesto di averne una copia. Ma quando ci hanno portato in carcere ce lo hanno tolto, con tutte le nostre cose, e all’uscita non ce lo hanno restituito. Siamo stati scortati anche in aereo, e quando siamo atterrati a Fiumicino la polizia ci ha chiesto “Ragazzi, ma che avete fatto”? Non lo sapevano neanche loro, non hanno comunicato neanche con la polizia italiana. Per noi è stato uno choc incredibile, non ci ho dormito per giorni. Per le pratiche ci eravamo affidati a un’agenzia, eravamo tranquilli e con tanti progetti. Speravamo di avere qualche possibilità di lavoro, non pensavamo di finire in manette».

Paola Pagnanelli