Macerata, 20 aprile 2014 - HA 40 ANNI e una vita rovinata dal gioco d’azzardo: Valentino (nome di fantasia) da circa 10 mesi è in cura per gioco d’azzardo patologico, il cosiddetto Gap, dalla dottoressa Alessandra Morbidelli del Dipartimento di dipendenze patologiche. Valentino è un esempio tra i tanti che si ritrovano una vita distrutta dalla dipendenza dal gioco, una patologia che colpisce indifferentemente uomini e donne, classi d’età e classi sociali, da qualche anno riconosciuta al pari delle dipendenze da droga, fumo e alcol: una spirale dalla quale difficilmente si può uscire.

Qui si parla di slot machine, «un demone» come le chiama Valentino. Il suo demone. «Non ci sono grandi differenze rispetto alle altre dipendenze — spiega Morbidelli — il punto centrale è il controllo. Il primo passo è proprio quello di rendersi conto di non esercitare più nessun controllo su quando e quanto giocare. Non c’è una cura unica, che vada bene per tutti: c’è chi reagisce meglio alla terapia di gruppo e chi invece si trova meglio da singolo (paziente) a singolo (terapeuta). A seconda della problematica, si elabora un piano terapeutico individualizzato. Il caso di Valentino è un bell’esempio di forza di volontà e di consapevolezza: lui infatti ha smesso di negare l’evidenza, non solo si è reso conto di avere un problema ma l’ha ammesso davanti alla sua famiglia e ha chiesto aiuto per un percorso di cura. Di solito invece si rivolgono a noi perché costretti, quando sono messi da qualcuno con le spalle al muro».

COM’È cominciata?
«La macchinetta è un modo per passare tempo spegnendo il cervello. Avevo dei problemi personali, e giocare era un modo per dimenticarmene. La slot è un anestetico mentale. Ero già caduto nel gioco d’azzardo diversi anni fa. Questo demone lo conosco bene, quindi la seconda volta che sono diventato dipendente ho riconosciuto subito i sintomi. Poi, un giorno, ho perso 600 euro tutti insieme: ho chiamato mia moglie e i miei genitori e ho confessato tutto».

Quali sono gli effetti della patologia del gioco d’azzardo?
«Innanzitutto l’investimento del tempo, del denaro e il pensiero fisso sulle slot. Giocare la schedina una volta a settimana è normale,mentre il gioco ossessivo compulsivo, come quello provocato dalle slot, è completamente diverso: la notte sognavo la macchinetta e la vincita, con il suono connesso. Se poi ce n’era una che mi piaceva in modo particolare per combinazione di suoni, colori e tipo di gioco, allora era fatta: era come se mi entrasse in testa. La mattina appena sveglio già pensavo a quando avrei giocato: mi affrettavo a rifare il letto e portavo a scuola mia figlia, contento perché dalle 9 alle 12 avrei avuto tempo di giocare. Tutta la mia giornata era organizzata per il gioco».

Quanto influisce sulla patologia il fatto di non avere un lavoro?
«Molto, perché si ha tanto tempo libero, ma da una parte almeno non dispongo di soldi miei. Sono disoccupato da tre anni: la cosa assurda è che molti mi dicono: “Beato te hai tempo libero”. Non si rendono di che cosa significhi stare senza far niente tutto il giorno. Non lavoro da tre anni: sono sempre in cerca di un’occupazione, ma è assurdo che nei centri per l’impiego ci siano annunci del tipo: “Cercasi giovani per apprendistato con esperienza”: sono due cose in contrasto tra loro».

E gli affetti? Cosa comporta nelle relazioni con persone che ti stanno accanto?
«Io sono fortunato: i genitori e mia moglie hanno compreso la situazione e mi stanno vicini. Gli amici invece, dopo un po’che si gioca, si perdono, perché ci si isola: i miei nuovi amici erano i compagni di gioco. A uno di loro ho provato a dire di lasciar perdere, di non usare più il bancomat e magari di affidarlo a un genitore. Mi ha mandato a quel paese. Quando sei “dentro”, non vuoi sentire niente e nessuno. Io non farei mai avvicinare i miei figli a una macchinetta, perché so che esercita una forte attrazione sui ragazzini: per questo, trovo preoccupante che le slot non stiano solo nelle apposite sale ma anche nei bar, edicole e posti comunemente frequentati da famiglie».

Cosa comporta a livello di disagio sociale e aggressività?
«C’è il discorso della dignità umana: la patologia del gioco d’azzardo comporta infatti un isolamento dalla realtà e un trascurarsi nell’aspetto fisico. Ci sono padri di famiglia che si dimenticano di mangiare, o che vanno in giro con pantaloni strappati, o che vestono male i propri figli. Inoltre, si diventa molto aggressivi quando ci si accorge che c’è qualcuno dietro che ti sta osservando mentre giochi: ho visto gente cacciata via da locali perché si pensava portasse sfortuna. A volte mi chiedo: uno come me dove va? Si deve rinchiudere dentro casa? Ormai dappertutto ci sono le slot: ad esempio, sei in un bar: anche se non le sta usando nessuno in quel momento, le macchinette emettono suoni all’improvviso, come quelli di una vincita avvenuta, e questo attira a giocare. È possibile che quasi non ci sia un posto per leggere il giornale in pace mentre mi bevo un caffè?».

Cosa dovrebbe fare lo Stato secondo lei?
«Limitare le autorizzazioni ai locali. Comunque è un’ipocrisia mettere l’avvertenza “Giocare con moderazione”, quando si sa benissimo che è una vera e propria patologia».

E adesso?
«Mi occupo dei figli, sistemo la casa, sto con mia moglie: cerco di rendermi utile e di trovare un lavoro. Ancora non sono sicuro di essere guarito, e forse non lo sarò mai: ora mi faccio dare da mia moglie 5 euro al giorno per le sigarette. Certo, è frustrante, ma sempre meglio che ricadere nel gioco d’azzardo».

Chiara Gabrielli