Sarchiè, cinque indagati per l'omicidio. Ma la famiglia aspetta ancora il funerale

Due mesi fa la scomparsa del pescivendolo. La salma sempre sotto sequestro

I familiari di Sarchiè escono dal tribunale con gli avvocati

I familiari di Sarchiè escono dal tribunale con gli avvocati

Macerata, 25 agosto 2014 - Un uomo ucciso e ancora insepolto, due mesi dopo la scomparsa da casa; cinque indagati a piede libero. Sono questi gli assi cartesiani su cui si articolano le indagini per l’omicidio di Pietro Sarchiè, il commerciante di pesce sambenedettese misteriosamente scomparso il 18 giugno, e poi ritrovato cadavere il 5 luglio. Il corpo, semicarbonizzato, era nascosto sotto rifiuti e terra nella campagna intorno a San Severino (Macerata), nella valle dei Grilli, non lontano dalla strada e da un sentiero usato dagli amanti del footing. Fino a pochi giorni prima, il caso di Sarchiè era etichettato solo come «ricerca a persona scomparsa».

La moglie Ave Palestini, e i figli Jennifer e Yuri denunciarono subito che il padre non era tornato a casa dopo il consueto giro tra i clienti dell’Alto Maceratese. Vigili del fuoco e carabinieri batterono le montagne, senza trovare né lui né il suo furgone. Sulle prime si sospettò che il sambenedettese se ne fosse semplicemente andato; per un errore si pensò anche che fosse arrivato a Roma, il 18 giugno. Eppure, non c’erano prelievi dal suo conto corrente, non c’erano amanti segrete, passioni inconfessabili, debiti di gioco e tutto il repertorio che spesso viene fuori indagando su qualcuno. Non c’era nulla: un uomo dalla vita semplice e trasparente si era volatilizzato. A luglio, il procuratore capo di Macerata Giovanni Giorgio aprì un fascicolo ipotizzando, «come minimo» disse, il reato di violenza privata. E dopo alcuni giorni di ricerche venne fuori il corpo. I carabinieri del Reparto operativo di Macerata, diretti dal colonnello Leonardo Bertini, iniziarono a sentire tantissime persone, e due giorni dopo il ritrovamento del corpo vennero fuori pezzi di furgone ed effetti personali senza dubbio appartenuti alla vittima: in un capannone in uso a un imprenditore edile di Castelraimondo, in casa di una coppia del posto, e nel garage di un altro venditore ambulante di pesce di Pioraco, che lavora con il figlio.

Così si ritrovano sotto inchiesta in cinque: Santo Seminara, Maria Anzaldi e Domenico Torrisi per favoreggiamento, Giuseppe e Salvo Farina, padre e figlio, per omicidio. Sarebbero stati loro, per la procura, ad attendere Sarchiè a Sellano di Camerino e a sparargli, poi a tentare di nascondere il cadavere e i pezzi del furgone, con la complicità degli altri indagati, tutti amici e tutti originari del Catanese come i Farina. La procura attende i risultati delle analisi scientifiche. Per poter dare anche il via libera al funerale, dato che la salma è ancora sotto sequestro.

Il medico legale e genetista Francesco De Stefano, incaricato dal giudice Domenico Potetti, ha già preso i campioni di tessuto prelevati dal corpo del sambenedettese durante l’autopsia. Poi, alla presenza dei legali e consulenti degli indagati e delle parti offese, acquisirà le svariate decine di reperti raccolti dai carabinieri, e i campioni presi dopo l’esame con il luminol nel garage di Farina a Castelraimondo. Gli indagati, difesi dagli avvocati Marco Massei, Mauro Riccioni, Tiziano Luzi e Maria Squillaci, respingono le accuse. I familiari di Sarchiè, assistiti dagli avvocati Mauro Gionni e Orlando Ruggeri, pretendono giustizia: «Chi ha causato a noi questo dolore atroce, deve pagare». Nei giorni scorsi lo hanno ricordato con una fiaccolata «per non dimenticare mai il suo sorriso, le sue battute e per chiedere una giustizia esemplare».