San Severino, bimbo ucciso a Natale: parte il processo alla madre

I deliri della Calamai: "Simone mi parla ancora"

Debora Calamai insieme al piccolo Simone

Debora Calamai insieme al piccolo Simone

San Severino (Macerata), 7 luglio 2015 - «Simone anche adesso mi sta parlando. Mi vuole bene. Sta con gli angioletti. Mi dice che mi starà sempre vicino. Non è arrabbiato, gli ho dato un bacio appena morto. Sorrideva, come dicesse ‘grazie mamma. Se non lo facevi tu lo facevo io’. Anche ora è con me: mi dice di stare tranquilla, dice che sta meglio così». Sono abissi spaventosi quelli che possono aprirsi nella nostra mente, come tragicamente conferma Debora Calamai, la fiorentina di 38 anni che a San Severino, la sera della vigilia di Natale, ha ucciso a coltellate il figlio Simone di appena 13 anni. Oggi la donna rimarrà a Castiglione delle Stiviere, nella struttura che la ospita da tempo, mentre in tribunale a Macerata, davanti al giudice Enrico Zampetti, si aprirà per lei il processo con il rito abbreviato.

A rappresentare la donna saranno gli avvocati Simona Tacchi, Mario Cavallaro e Tiziano Luzi. A riportare le frasi di Debora Calamai è la perizia redatta dallo psichiatra Gabriele Borsetti, consulente del giudice Domenico Potetti nell’incidente probatorio: il professor Borsetti ha ricostruito tutta la storia della donna. Dopo la morte della madre, a 17 anni la Calamai si era trasferita da Firenze a San Severino per seguire il fidanzato, e poi marito, Enrico Forconi. In casa dell’uomo si era sentita male accolta e giudicata e dopo la nascita di Simone aveva sofferto di depressione post partum. Poi c’era stata la separazione dal marito, dovuta anche a una sua gelosia estrema e malata. Tra ricoveri e terapie, aveva sempre continuato a essere seguita da uno psichiatra, ma la situazione era sempre più difficile. «Mio marito – racconta lei – voleva un figlio più brillante. Lo maltrattava, gli dava gli scappellotti». Calamai inizia ad avere dei comportamenti eccentrici e ha paura che le portino via Simone: il padre ha già chiesto l’affidamento esclusivo e all’udienza non manca molto. «Ha una personalità adesiva, fusionale, mai completamente separata dall’Altro» scrive il consulente.

 

La morte della madre, la nascita del figlio e la separazione dal marito «slatentizzarono il quadro clinico» che poi precipita la sera della vigilia. «Il suo gesto è motivato da rabbia e angoscia di perdere Simone, in una situazione in cui i confini identitari tra sé e il figlio non erano chiari. La sua sofferenza era, proiettivamente, la sofferenza del figlio, la sua esperienza di non accettazione, era la non accettazione del figlio da parte del padre. La morte di Simone è la fine della sua (di lui e di lei) sofferenza. Con l’uccisione del figlio ha realizzato la fusione eterna». Il prof Borsetti ha dichiarato l’imputata incapace di intendere e di volere per un disturbo schizoaffettivo di tipo bipolare, e socialmente pericolosa. Ora la perizia sarà valutata dal giudice, che dovrà decidere quale pena infliggere alla donna.