Quattro arresti per l’omicidio Sarchiè, il procuratore: "Un caso di lupara bianca"

Macerata, per l’accusa determinante una perizia telefonica: il 18 giugno i Farina tesero un agguato all’ambulante. Il movente: "Volevano eliminare un concorrente"

Un momento della conferenza stampa (foto Calavita)

Un momento della conferenza stampa (foto Calavita)

Macerata, 24 febbraio 2014 – La mattina del 18 giugno scorso, il giorno in cui scomparve, Pietro Sarchiè venne pedinato da un’auto durante il suo solito tragitto per andare a vendere il pesce nell’alto Maceratese. E a Sellano di Camerino, vicino alla chiesa di Sant’Arcangelo in zona Perito, scattò l’agguato. Secondo la ricostruzione della procura della Repubblica di Macerata e dei carabinieri del Reparto operativo e di Camerino, l’auto – una Y 10 – speronò il furgone di Sarchiè per fermarlo. Nello stesso tempo, da un altro furgone appostato, vennero esplosi due colpi di pistola. A quel punto Sarchiè non riuscì a fuggire e venne freddato con altri quattro colpi sparatigli anche alla testa. Sulla Y10 – stando sempre alla procura che dopo sette mesi di indagini ha chiuso il cerchio facendo scattare quattro arresti per l’omicidio del commerciante sambenedettese – c’era Salvatore Farina. Appostato a Sellano, invece, ci sarebbe stato il padre, Giuseppe, accusato di aver ucciso materialmente il pescivendolo.

La ricostruzione è stata fatta questa mattina nel corso di una conferenza stampa nella caserma dei carabinieri di Macerata. Il movente – è stato detto – è da ricondursi alla volontà dei Farina di eliminare un concorrente nel mercato della vendita del pesce. Determinante, per ricostruire i fatti e ottenere le misure di custodia cautelare, c’è soprattutto una perizia sui tabulati telefonici dei Farina, attraverso la quale gli inquirenti ritengono di poter dimostrare che quella mattina, tra le otto e le nove, tesero l’imboscata a Sarchiè. Smentendo, di fatto, quanto hanno sempre sostenuto padre e figlio, ossia che in quelle ore erano a Castelraimondo a vendere il pesce. Il procuratore della Repubblica Giovanni Giorgio ha parlato di un vero e proprio caso di ‘lupara bianca’. Dopo il delitto, infatti, i Farina secondo l’accusa avrebbero trasportato il cadavere di Sarchiè a valle dei Grilli per poi bruciarlo e tentare di nasconderlo. Quindi, alle nove, sarebbero andati a Castelraimondo, nel capannone di Santo Seminara (anche lui arrestato questa mattina con Domenico Torrisi per favoreggiamento, ricettazione e riciclaggio), per nascondere il furgone di Sarchiè. Poi avrebbero portato la Y10 di Salvatore Farina sempre in un loro garage a Castelraimondo. Tra il 18 giugno e il 20 il furgone del pescivendolo – come ha sottolineato il procuratore – è stato smembrato per far sparire tutti i pezzi. Infine, sempre la sera del 18, Giuseppe Farina ha portato il pesce che avrebbe dovuto vendere Sarchiè a casa di Seminara.

Tra le tante testimonianze raccolte dagli inquirenti, una in particolare è emblematica: un addetto al recupero dei rifiuti chiamato per portar via i pezzi del furgone, sarebbe stato minacciato con un coltello dai Farina quando ha chiesto loro di compilare un modulo. «Allora non hai capito – gli è stato detto con il coltello puntato alla gola – noi siamo siciliani». Ma l’uomo, anziché farsi intimorire, andò dai carabinieri.