"Amianto, la mia vita rovinata per due anni di lavoro all’Icar"

Ezio Fantinati racconta la sua storia: "Nessun risarcimento per le operazioni subite"

Ezio Fantinati, ex operaio dell’Icar ora malato

Ezio Fantinati, ex operaio dell’Icar ora malato

Modena, 21 novembre 2014

«Perché parlarne ancora? A che cosa serve, me lo spiegate? Se ne sono lavati le mani tutti e da tanto. Sull’amianto, e su quello che è successo, non c’è più niente da aggiungere. Mi aspettavo la decisione della Cassazione e non sono né deluso né arrabbiato». Ezio Fantinati, 85 anni, rodigino di nascita ma residente a Modena da tempo, alla Icar di Rubiera ha lavorato solamente un biennio, negli anni 60. Faceva il ‘jolly’, racconta. Nel senso che era un tuttofare dentro quella fabbrica «dove l’amianto, che era come una lana grigia e soffice, si toccava e si lavorava senza guanti e senza alcuna protezione. Dove quando caricavano i sacchi di juta finiva poi che gli operai erano completamente ricoperti dalla polvere. Polvere di amianto puro».

Due anni, ma tanto è bastato per riportare gravissimi problemi all’apparato respiratorio, sinonimo di operazioni per tutta la vita senza mai vedere un euro di risarcimento. Sufficienti per entrare in quel lungo elenco di ammalati (nel processo di Torino erano 3mila i casi iscritti tra decessi e malattie, seimila le parti civili). Tre i morti modenesi accertati, molti gli operai della nostra provincia che hanno riportato conseguenze fisiche lavorando all’Icar.

«All’inizio del procedimento ci credevamo. Io – ricorda Fantinati – venivo dalla campagna. Lavoravo in un pezzo di terra a Reggio, dei miei genitori. Poi ho deciso di andare a lavorare alla Icar. Nessuno –risponde quasi stupito alla domanda – parlava dei rischi che comportava maneggiare l’amianto. Perché nessuno sapeva il pericolo che correvamo. Qualche anno dopo i medici mi hanno confermato che i miei problemi dipendevano proprio da quel materiale, che, mescolato al cemento, utilizzavamo per produrre praticamente tutto. Dai tubi alle lastre. Personalmente ci ho rimesso l’intero apparato respiratorio. Tutto. Operazioni su operazioni per tutta la vita. Andavo alla Icar persino la domenica, a pulire le canalette da quel materiale. Ho sentito dire che altri che lavoravano con me sono morti, ma non ha più senso tornare a quegli anni perché tanto l’amianto non si produce più e chi doveva decidere se n’è lavato le mani». La sentenza della Cassazione, che mercoledì ha annullato la sentenza di secondo grado, ovvero la condanna a 18 anni del miliardario svizzero Stephen Schmidheiny per prescrizione, Fantinati l’ha sentita alla tv: «Non mi ha fatto alcun effetto. Da tempo so che le cose che durano troppo a lungo non portano da nessuna parte. La verità è una sola. Io non ho visto nessun risarcimento e per tutta la vita ho dovuto pagare di tasca mia le cure per i danni gravissimi che ho subito».

A rappresentare in aula Fantinati, e una trentina di altre parti civili tra le quali la Provincia di Reggio Emilia, c’era l’avvocato reggiano Ernesto d’Andrea: «Il sentimento di Fantinati è più che comprensibile. L’ho visto in tanti parenti e in tante persone ammalate presenti in aula a Torino. Come ho visto tante lacrime. Il punto è che l’amianto ha un effetto che si sviluppa lungo 30-40 anni. Credo che di fronte alla decisione della Cassazione qualcuno del Governo debba davvero prendere dei provvedimenti sulla prescrizione per casi come questo. Come si fa – chiede l’avvocato – a ritenere prescritto qualcosa che sta provocando morti ancora oggi e che altri decessi provocherà in futuro? Chi risarcirà le persone che si sono ammalate, magari anche solo perché abitavano vicino a una delle fabbriche? Questa sentenza rischia di fare scuola e quindi compromettere anche altri processi sull’amianto. Guariniello vuole imboccare la strada dell’omicidio volontario. In questo modo il cerchio si restringerà notevolmente. Ovvero solamente a chi lavorava all’interno degli stabilimenti. Ma a tutti gli altri, ai residenti di quei Comuni chi darà risposte?».