Nonantola, De Gregori riparte dai club

Il tour internazionale prende il via dal Vox: "Ho sempre amato i posti piccoli"

Francesco  De Gregori

Francesco De Gregori

Nonantola (Modena), 13 ottobre 2017 - Ai tempi di ‘Banana Republic’ Francesco De Gregori è stato tra i primi a portare la canzone d’autore negli stadi mentre ora è uno dei più convinti a scartare di lato, come il bufalo della canzone, la dittatura dei grandi numeri e dei grandi palchi per accasare i suoi florilegi musical-letterari tra le quattro pareti di piccoli club. E proprio da un piccolo club, il Vox di Nonantola, nel Modenese, stasera alle 21 prende il via il tour internazionale dell’artista in bilico tra l’Europa e il Nordamerica.

«A me piacciono anche i posti piccoli, ho sempre amato i club, li ho già fatti e continuerò a farli» spiega l’autore di ‘Titanic’, 66 anni, che in scena sarà affiancato da Guido Guglielminetti al basso, Carlo Gaudiello alle tastiere, Paolo Giovenchi alle chitarre e Alessandro Valle alla pedal steel guitar e mandolino. E poi aggiunge, calcando la mano su quell’atmosfera semplice che si perde sotto ai grandi palchi e che, dopo anni di fama, va ancora ricercando tra gli sguardi del suo pubblico: «Quel suono un po’ ferroso fatto solo per chi sta lì in carne e ossa, magari con una birra in mano, e che ogni tanto esce a fumarsi una sigaretta quando faccio un pezzo che non gli piace. E che non si aspetta di rivedere tutto lo spettacolo in televisione un anno o un giorno dopo».

In agenda dopo Nonantola ci sono città come Monaco, Zurigo, Bruxelles, Lussemburgo, Londra, Lugano e Parigi, in una cornice psicologicamente impegnativa come quella del Bataclan, ma pure, volando oltreoceano, Boston e New York.

«Mi incuriosisce la Town Hall, il teatro di Broadway che toccheremo a novembre. È un locale storico dove pare abbia suonato Dylan la prima volta che uscì dalla cerchia protetta dei piccoli club del Village – ricorda De Gregori –. Dylan è il mito americano, il rock, il folk, una figura lunare, collegata a quel mondo che conoscevo dai libri, la Beat Generation. Di suo metterò in scaletta anche un pezzo preso del mio ultimo disco di traduzioni. Può sembrare una stranezza andarlo a cantare in italiano davanti a un pubblico internazionale. Ma una sera a Parigi ho sentito Dylan cantare in inglese ‘Les feuilles mortes’ di Jacques Brel e da quel momento ho capito che si può fare tutto. Non credo che ci sia una gran differenza fra il nostro pubblico in Italia e quello che troverò a Monaco o a Londra o a Parigi. Anche lì è pieno d’italiani, e poi il mondo si è rimpicciolito, i linguaggi ormai si sono integrati».

La promessa è quella di sperimentare e incamminarsi su strade anche secondarie rispetto a quella maestra lastricata in quarantacinque anni di palcoscenico con pezzi entrati sottopelle a intere generazioni.

«Sono alla ricerca di un suono nuovo e lo sto cercando sul palco avventurandomi anche in esperimenti come quello di rinunciare per una volta alla batteria, che metto in atto in questa tournée – prosegue l’artista alla vigilia della prima data della lunga serie di concerti –. D’altronde sono un performer, uno abituato a stare sulla scena. Questo è il motivo per cui faccio ormai da tanto tempo questo mestiere e per cui, se non vado errato, ho inciso diciassette dischi dal vivo, contro i ventiquattro o venticinque in studio. E la particolarità è data anche dal fatto che incido meno dischi in studio di un tempo. Mi viene sempre più difficile, infatti, trovare cose che non ho detto. E poi, negli artisti di lungo corso come me, in un modo o nell’altro affiora sempre l’ansia di doversi confermare sui livelli di ciò che si è fatto… O almeno di ciò che la gente ritiene sia stato fatto in passato».