Finale Emilia (Modena), 13 dicembre 2009. QUANDO riceve un ospite nel salotto di casa sua e vuole raccontargli la sua storia, Maurizio Boetti per prima cosa inserisce nel videoregistratore una cassetta. E, quasi per esorcizzare i ricordi, lascia parlare le immagini dei tg di sedici anni fa. Il nastro è praticamente consumato, ma lui lo riavvolge ancora una volta, rewind and forward: «Quello sulla barella sono io: mi stavano caricando su un pulmino, perché l’ambulanza non riusciva ad avvicinarsi. Da casa, mia moglie riconobbe nella ripresa tv i miei stivali».

IMPOSSIBILE dimenticare quel giorno, soprattutto se puoi essere qui a rievocarlo. Quel giorno, era il 14 settembre 1993, Maurizio Boetti, tecnico oggi 54enne, è piombato nell’inferno ed è tornato alla vita.

E’ sopravvissuto a un terribile incidente aereo, all’aeroporto di Varsavia: quel pomeriggio, sotto un violentissimo temporale, con raffiche di vento che avrebbero piegato un albero, l’Airbus 320 della Lufthansa in arrivo da Francoforte non riuscì a frenare prima della fine della pista, finì con un’ala sopra un terrapieno e prese fuoco. Il pilota e un passeggero rimasero uccisi, decine di altri passeggeri furono feriti, alcuni gravemente. E a bordo del volo LH2904, Maurizio Boetti era l’unico italiano. Ce l’ha fatta a ‘rinascere’, anche grazie all’aiuto silenzioso di altri ‘miracolati’ come lui che gli hanno scritto, pur senza conoscerlo di persona, aiutandolo a farsi forza

GUARDANDO le fotografie, sembra di vedere scene di Lost, il telefilm campione d’ascolti. Ma questa non è fiction. Boetti abita a Finale Emilia, nella Bassa modenese, e lavora per un’impresa del Bolognese che realizza impianti per la chimica. Il suo lavoro lo portava spesso in viaggio.

«Dovevo trovarmi in un’azienda polacca per la messa a punto di un sistema per il recupero dei solventi — spiega —. Ricordo che l’impiegata della ditta voleva prenotarmi un volo diretto da Milano a Varsavia ma io chiesi di partire da Bologna, con scalo a Francoforte. Evidentemente era destino». Viaggiava in prima classe, era seduto alla fila 10. E stava leggendo tranquillamente una rivista, quando si è scatenato il finimondo. «Il volo non aveva avuto problemi. In fase di atterraggio, l’aereo aveva già toccato in parte la pista, quando mi sono reso conto che non stava frenando, e continuava ad andare a centinaia di chilometri all’ora. E’ accaduto tutto in pochi attimi: il pilota ha cercato di sterzare, la punta dell’ala è finita su una collinetta, l’aereo si è come sollevato, e poi è ricaduto di peso”. E sono divampate le fiamme.

ACCANTO al posto di Boetti il finestrino è scoppiato: “Una fiammata ha attraversato l’aereo da una fiancata all’altra – racconta -. Il colpo mi ha scagliato sotto il sedile, la cintura di sicurezza mi è rimasta come ‘stampata’ sulla pelle. Ho sentito subito un dolore acutissimo. All’improvviso il fumo ha iniziato a invadere tutto. Sentivo gli altri passeggeri che urlavano. Con un’enorme fatica, mi sono portato nel corridoio, disteso, ma le altre persone mi calpestavano». Boetti, con fatica, è riuscito a trascinarsi fino a uno squarcio nella fusoliera.

«Chi poteva, cercava di correre il più possibile, di raggiungere uno scivolo. Io non ce la facevo — prosegue —. Il dolore ha avuto il sopravvento: credo di essere arrivato fino al punto in cui l’ala dell’aereo era finita sul terrapieno, mi sono lasciato rotolare giù dalla collinetta. In quel momento accorrevano i vigili del fuoco, sono stato sommerso dagli schiumogeni, stavo per soffocare: ho alzato un braccio per farmi notare. Qualcuno mi ha sollevato di peso e mi ha portato in salvo. Sono stato l’ultimo a uscire dall’aereo. Ero così terrorizzato, che non riuscivo ad aprire il pugno: per tutto il tempo ho continuato a tenere stretta la rivista che stavo sfogliando durante l’atterraggio».

QUEL GIORNO, all’aeroporto di Varsavia, c’erano anche troupe tv: infatti era previsto l’arrivo di un aereo che portava in Polonia le spoglie di un antico sovrano. Per questo, le immagini del disastro arrivarono quasi in diretta sui teleschermi di tutto il mondo: «E mia moglie Annamaria vide tutto da casa – ricorda il tecnico finalese —. Si attaccò al telefono per avere informazioni, ma nessuno voleva dargliele: tutti le dicevano che non potevano rivelare la lista dei passeggeri. Fino a quando lei mi vide ripreso sulla barella: stavano portandomi all’ospedale. Avevo le vertebre fratturate. Ho rischiato di rimanere paralizzato».

Boetti rimase in rianimazione qualche giorno, poi venne trasferito all’ospedale Rizzoli a Bologna e sottoposto a intervento. «Ci sono voluti mesi, ma sono tornato alla vita. In tanti mi sono stati vicini: e già all’ospedale di Varsavia, mi arrivò la lettera di un signore di Miami, Evenor Lopez Scott. Mi scriveva che lui era sopravvissuto a una sciagura aerea in Honduras, 137 morti, e mi incoraggiava, mi diceva che lui era riuscito a rinascere, nonostante il dolore, le ustioni, il terrore. Anche la sua testimonianza è stata importante per me».

MA CHI VIVE un’esperienza così sconvolgente, cosa ‘vede’ nel momento dello schianto? «A un ‘training psicologico’ a Monaco di Baviera, ho sentito altri rispondere che loro avevano rivisto il film della loro vita, altri che avevano pregato. Io devo essere sincero: in quel momento l’unico pensiero era la sopravvivenza».

Di quel momento, restano alcune immagini, «il fumo, la pioggia, le urla, il dolore — aggiunge —. Al corso ho detto che, ripensando a quel giorno, rivedo un ombrello che mi riparava: quando adesso salgo su un aereo, pensando a quell’ombrello, mi sento meglio». Boetti ha ripreso a volare pochi mesi dopo l’incidente («Ora volo quasi più di prima»), ma adesso chiede sempre il posto vicino all’uscita di sicurezza: qualche addetto vuole sapere il perché, ma a lui basta spiegare due cose su quello che ha passato, e nessuno fa più domande.. «Anzi, spesso c’è chi vuole sedermi accanto, perché ritengono che io porti fortuna: una cosa del genere, dicono, non può succedere due volte».

NON SI SENTE un predestinato. «Mia moglie, per fede, sostiene che io sia un miracolato. Io invece, in realtà, la vedo in maniera diversa. Ritengo di essere stato sfortunato: se avessi preso l’altro volo, non sarei stato su quell’aereo…» L’incidente comunque ha cambiato la sua vita: «Ho cercato di recuperare un rapporto più umano e più vero con quanti mi stanno accanto. Assieme a mia moglie, poi, ho iniziato a occuparmi delle iniziative di un’associazione vicina al Movimento dei Focolari, ‘Verso un mondo unito’, che aiuta i ragazzi di Paesi del sud del mondo. Fare qualcosa per gli altri dà più senso alla nostra vita».

NONOSTANTE TUTTO, non può, ma forse neppure vuole dimenticare quel giorno. «Pensi che è ‘sopravvissuto’ perfino il computer programmatore che portavo con me — sorride —. Lo ritrovarono dopo qualche giorno, è esposto al Museo della Siemens». E ci sono ancora i ‘famosi’ stivali che indossava sull’aereo: «Li ho appesi a un chiodo, giù nel ripostiglio. Sono quasi un talismano».