Modena, 10 aprile 2012 - Prosegue il viaggio nei paesi ‘fantasma’ dell’Appennino tra case diroccate e ricordi. Un giro tra un passato forse dimenticato, che fa tappa questa volta a Magrignana, nel comune di Montecreto. Una sosta insolita, in una borgata sospesa tra la vita e il baratro dell’oblio, sul confine tra la sorte di distruzione degli altri borghi abbandonati e il destino incerto di quei centri montani che ancora riescono a tenersi stretta qualche famiglia attaccata al focolare. Almeno per ora. Il fascino misterioso di Magrignana, infatti, è proprio questo.

 Abbandonato per gran parte dell’anno, il suo centro torna a rivivere d’estate, con la luce che filtra dalle finestre di una qualche abitazione con le pareti murate a secco. Case calde di vita, rimaste in piedi tra le macerie di altre, che ora sono solo muri oscillanti al vento, colonne portanti di una comunità che sapeva trarre da questo spicchio di territorio tutto il necessario per sopravvivere.

 Sì, perché quello che bisognerebbe recuperare in questi ‘musei’ all’aperto, non sono soltanto i muri, dice Dante Bortolotti, nato a Roncovecchio, borgata abbandonata nei dintorni di Magrignana e ora residente a Montecreto, ma «una filosofia di vita, la cultura che c’era su queste montagne, dove erano tutti artisti, anche se analfabeti».

 Bortolotti, scrittore e appassionato di storia locale, è uno dei volontari che da anni si dedica alla conservazione del piccolo borgo, le cui origini antichissime si perdono nel tempo, come dimostrano alcuni castagni millenari, segno di antiche coltivazioni, uno dei quali ha una circonferenza di 10 metri e mezzo. Come ha spiegato Dante, il nome Magrignana pare derivare dalla famiglia romana dei Macri, o dal nome dell’imperatore Macrinus del III secolo d.C. Il borgo fu abitato in età romanica, come testimoniano due colonne rimaste in piedi, dello stesso periodo del Duomo di Modena.

Fu zona di passaggio nel Medioevo, e di confine tra i dialetti emiliani e quelli a influenza toscana. La piccola chiesa seicentesca, ristrutturata nel ‘800, conserva intatti i suoi affreschi vivaci, ed è ancora sede della parrocchia, tenuta in piedi dai volontari, che nelle vecchie stanze della canonica hanno allestito un museo di oggetti sacri (i più antichi sono strumenti della passione in legno del ‘700) e di fotografie degli abitanti dal 1850.

Ancora attrezzi del lavoro nei campi, vecchi sci e antichi volumi di canti gregoriani. Il borgo ha raggiunto il momento di massima espansione attorno al ‘600 e ha continuato a conservare i suoi abitanti fino agli anni ’50 del ‘900, quando l’Italia si risollevava dalle ristrettezze della guerra. Ma la montagna iniziava a spopolarsi.
 

Milena Vanoni