«Quando una madre si ritrova a sperare che il figlio faccia rapine e non omicidi»

LA NOSTRA INTERVISTA Roberto Saviano oggi presenta al Forum Monzani ‘La paranza dei bambini’

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Modena, 4 dicembre 2016 - Oggi alle 17.30 Roberto Saviano sarà al Bper Forum Monzani con il suo ultimo libro ‘La paranza dei bambini’, che dà voce ai ragazzini che sfrecciano in scooter per i vicoli di Napoli dando la caccia ai soldi e al potere, invischiati nell’orribile rete della camorra. L’autore non ha bisogno di presentazioni.

Nel libro l’infanzia negata dei bambini colpisce il lettore come uno schiaffo. Quanto è stato difficile per lei confrontarsi con un tema così delicato?

«È stato difficilissimo. Mentre leggevo gli atti delle indagini sulle paranze, mentre leggevo le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali, riuscivo a immaginare quelle madri che speravano che i loro figli facessero rapine e non omicidi, che girassero disarmati per non ammazzare nessuno e per non essere ammazzati. E a ogni pagina nutrivo il desiderio di leggere un epilogo diverso».

C’è una storia particolarmente simbolica?

«È tutto altamente simbolico, sopratutto leggere i nomi delle strade in cui avvengono ‘stese’ e omicidi: sono le stesse strade che spesso vengono esaltate come i luoghi del turismo, come i luoghi della bellezza. Sono le strade del centro storico di Napoli frequentate da studenti. A leggere gli atti del processo istruito dai pm Woodcock e De Falco viene da pensare a come sia possibile che tutto questo sia costantemente ignorato dalla politica. E poi ci sono i giovani capi, come Emanuele Sibillo, morto a 19 anni e venerato a Forcella come un nume tutelare».

Un recente rapporto di ‘Save The Children’ dice che in Italia un bambino su tre rischia la povertà e l’esclusione sociale. Quanto è forte lo squilibrio tra il nord e il sud sotto questo aspetto?

«È fortissimo lo squilibrio e il dato sulla disperazione scolastica che colpisce un bambino su tre nei quartieri più difficili di Napoli, ci indica la strada e ci dice esattamente da dove bisognerebbe iniziare. Inutile fare proclami, inutile dire che c’è stato un recupero: la situazione è ancora drammatica. Se invece di parlare di sconfitta del fenomeno criminale si dicesse onestamente che la situazione è drammatica e che serve l’impegno di tutti, ci avvieremmo a una reale soluzione».

Nonostante la durezza della realtà che racconta e le grandi difficoltà di una vita sotto scorta, riesce a rimanere ottimista? Crede che questo paese – e in particolare il Sud – abbia l’energia per crescere?

«Al Sud la classe politica – ovviamente non tutta ma spesso quella che occupa posizioni apicali – ha responsabilità immense. Si va avanti per proclami, si celebrano auspici e non risultati ottenuti. Non esiste presa di coscienza perché ciò che non funziona lo si elimina da ogni discussione e chi ne parla diffama, lo fa per tornaconto personale. I panni sporchi si lavano in famiglia, questo viene ripetuto a chi osa essere nota discordante, a chi osa dissentire dal racconto forzatamente positivo di una realtà che vede tra le proprie vittime proprio i giovanissimi».

In questi giorni è in Emilia per alcune presentazioni: questa terra, che a lungo si è ‘vantata’ di avere anticorpi contro le infiltrazioni mafiose, negli ultimi anni si è ritrovata al centro delle cronache in cui si parla di criminalità organizzata al nord, con la maxi inchiesta ‘Aemilia’, tutt’ora in corso. Pensa che ora si sia raggiunto un livello di consapevolezza sufficiente?

«Un tempo la consapevolezza si raggiungeva solo quando c’erano morti, ora nemmeno il sangue versato fa aprire gli occhi. Le inchieste sono percepite come lontane, la politica non ha interesse a tradurle in racconto del territorio perché dovrebbe sottolineare le proprie mancanze quando non le proprie connivenze. Siamo in un vicolo cieco dal quale solo un moto di orgoglio potrebbe farci uscire: la consapevolezza che a farne le spese sono i giovanissimi, senza opportunità e senza prospettive. Il fenomeno criminale lo potranno fermare inchieste, arresti, responsabilità ed empatia. Ecco perché raccontare non è solo un’opzione, ma una necessità».