Pesaro, 19 luglio 2011 - «UN GIORNO in pretura», sabato sera, con quell’ora e più di strasmissione sulla giallo irrisolto di Francesca Moretti — aveva 29 anni, laureata in Sociologia, ex studentessa del classico Mamiani — fondamentalmente ha riaperto una ferita. Perchè a 11 anni da quel delitto — Francesca muore a Roma il 22 febbraio del 2000 dopo aver ingerito una minestrina al cianuro, nella sua casa del quartiere San Lorenzo di Roma — nessun’altra verità è emersa su chi possa esser stato a volerla uccidere. Non sono stati i rom: lei era legata a uno di loro, Graziano Halilovic, a sua volta padre di 5 figli e legato a una donna, Fatima, che minacciava anche di morte Francesca, volendola allontanare dal marito; e soprattutto non è stata Daniela Stuto, al tempo 26enne, la studentessa di Psicologia di Lentini che indagata, si fece mesi di arresti domiciliari, e rischiò di perdere la ragione. In primo grado, il pm, Lina Cusano, chiese ai giurati di condannarla a 25 anni per omicidio volontario. E’ stata assolta in primo grado e in appello. Ora è mamma, ha fatto ricorso in Cassazione dopo che lo Sato le ha riconosciuto, per illegittima detenzione, soltanto 52mila euro. Ma il ricorso l’ha perso, e deve accontentarsi di quei soldi.

 DUE RAGAZZE intercettate da un destino più grosso di loro, Francesca e Daniela. Abitano insieme in quella casa a Roma, la prima perchè lì lavora, all’Opera nomadi, ha la passione, oltre che per Graziano, per i bimbi, è operatrice scolastica, li accompagna a scuola, ha in progetto di aprire un centro di accoglienza per le famiglie Rom. La seconda è una studentessa di Psicologia vicina alla laurea. Le due si conoscono dal ’99. Sul loro rapporto, all’epoca dei fatti — la Stuto viene arrestata l’8 gennaio del 2001 — i giornali scriveranno particamente di tutto. Che tra le due c’era un rapporto lesbico, che Daniela l’ha uccisa per gelosia, che Daniela era border line, fragile, ecc...

A VEDERLA in tv, nei primi piani che la riprendono piangente davanti alle accuse e alle insinuazioni che le rivolge il pm, ha l’aria di una che non finge. Difficile fingere certe lacrime, se non impossibile. Dicevano che era border line, ma la ragazza dimostra di avere una resistenza psicologica enorme, quando racconta l’inferno trascorso nei lunghi mesi dei domiciliari, «quando non riesci a dormire perchè hai paura di non sentire il campanello dei carabinieri, che vengono a controllare se sei a casam, e quindi se non ti svegli temi di passarte per una che è evasa». Commovente la figura dello zio che, sempre al processo, piange, perchè gli hanno trovato in casa quel bidone in cui un tempo c’era cianurto, ma che con il cianuro che ha ucciso Francesca non c’entrerà nulla. Poi le sue lacrime liberatorie, alla lettura della sentenza di primo grado, quando sente il numero magico, quel 530 del codice che le fa capire di esser stata assolta. E così, alla fine, la trasmissione ruota tutta su di lei, sull’innocente che è salvata per un pelo da un quasi ergastolo (25 anni di galera), e si tende a dimenticare che Francesca è morta davvero, aveva solo 29 anni, molti sogni: e che ancora non c’è un colpevole per questa morte. Sfilano le immagini di Pesaro, si sentono le frasi che rivela Mirela, un’amica di Francesca: «Mi diceva, ‘non vedo l’ora di tornare a Pesaro e fare un passeggiata sulla spiaggia’». Appunto, la ferita aperta è che quella passeggiata non gliel’hanno fatta più fare. E che nessuno, ancora, ha pagato per questo.