Pesaro, dal barcone al sogno della Juve. Maxi provino solo per i profughi

110 richiedenti asilo sotto esame. Gli osservatori: sono bravi

Una fase della partita giocata ieri da 110 richiedenti asilo (Fotoprint)

Una fase della partita giocata ieri da 110 richiedenti asilo (Fotoprint)

Pesaro, 24 agosto 2017 - Hai visto mai che dopo la fuga dall’Isis, dalle torture in Libia, dall’odissea in mare con sbarco in Sicilia, divento un calciatore famoso? È il sogno di centodieci africani richiedenti asilo politico che ieri hanno dato vita alla partita di calcio più lunga della loro vita. Un giorno intero in campo, alternandosi in partite di venti minuti, per convincere gli osservatori a dare loro una opportunità in una squadra dilettantistica o professionistica (FOTO).

Alla fine ne saranno scelti una ventina: «Il livello è medio, diversi di loro saranno proposti a squadre dilettantistiche o di categorie superiori», dice Daniele Verdesca, procuratore per squadre dalle serie A alla serie D. È stato lui a coordinare sul campo una iniziativa voluta dall’associazione Incontri per la democrazia di Cristina Cecchini, che aveva innanzitutto uno scopo umanitario: dare una opportunità di integrazione, attraverso il gioco, a chi ha lasciato tutto per provare ad avere una vita migliore.   Il campo di Vallefoglia, alla periferia di Pesaro, ieri è diventato terreno di speranza per nigeriani, ghanesi, senegalesi che hanno buttato sul sintetico verde anima e corpo, cercando di convincere a suon di gol, scatti e serpentine chi doveva giudicarli. Said Abdallah, 22 anni, somalo, fisico longilineo, quando è sceso in campo per dimostrare chi era lo ha fatto «ripensando al padre ucciso dall’Isis e agli otto giorni passati sul camion per scappare». «Il calcio è la mia passione, è una occasione di riscatto, ma non mi faccio illusioni. So che in Italia è dura, c’è concorrenza e se non mi prenderanno farò un altro lavoro. Cerco solo un po’ di pace».

Keita Katan, 25 anni, della Ghinea, vive il sogno in ‘difesa’: «Il calcio italiano è sempre stato un miraggio per noi. Ora non mi sembra vero di poterci provare. Sono arrivato qui coi segni della tortura subita in carcere in Libia, e adesso gioco e posso avere una possibilità di farcela, di riscattarmi, di farmi accettare perché il calcio è uno sport che ti fa apprezzare dagli altri e in Italia è vissuto con trasporto. Io me ne sono accorto. Gioco difensore laterale. Giocavo là e ora posso farlo nel Paese dove il calcio vale oro. Ma non mi illudo. È già tanto provarci ed essere arrivati qui».

Corrono, gli atleti di colore, e la gente applaude. Loro, i profughi che visti solitamente con sospetto, l’oggetto della discordia politica quotidiana, grazie al calcio appaiono sotto una nuova luce agli occhi della gente. Dice Colley Ouasinou, 17 anni, del Gambia: «Ho dato tutto. Per me era importante dimostrare che il calcio è qualcosa che unisce, che fa stare insieme. Non mi importa se non ce la farò, quello che contava era dire agli altri che siamo tutti uguali e che vince chi ci prova, poi vedremo, al massimo farò un altro lavoro». Alcuni hanno già trovato un contratto prima del provino, in squadre dilettantistiche dove hanno iniziato a guadagnare.    Per altri la speranza è lasciare la comunità dove adesso lo Stato versa per loro quasi 35 euro al giorno, e farcela da soli: «Questa gente ha dignità da vendere», dice Cristina Cecchini che ha avuto l’intuizione del calcio per sdoganare dall’isolamento e dalla diffidenza i suoi ragazzi: «Alcuni giorni fa uno di loro è stato minacciato con una pistola da un passante. Oggi col calcio si sono fatti applaudire. È già una vittoria».