«Muhammad lo ricordo così, con un fiore»

Lo stilista Giacomo Guidi rievoca il suo rapporto col grande pugile scomparso. Nel 1998 l’azienda urbinate “Piero Guidi” utilizzò Ali come testimonial pubblicitario

Giacomo Guidi con lo scatto originale, Muhammad Ali e la foto pubblicata e poi Guidi con il campione nel 1997

Giacomo Guidi con lo scatto originale, Muhammad Ali e la foto pubblicata e poi Guidi con il campione nel 1997

Urbino, 6 giugno 2016 - «Sono stato male tutta questa notte pensando a Muhammad Ali. Il mio incontro con lui di tanti anni fa è stato un momento importantissimo della mia vita. L’ho sempre sentito vicino, negli anni ho anche continuato a mandargli valige e giacconi perché mi ricordasse nei suoi spostamenti». Giacomo Guidi, direttore artistico della Piero Guidi di Urbino, è provato dalla morte del grande campione.

Negli anni Novanta Giacomo Guidi convinse i manager di Ali a farlo posare per una sua campagna pubblicitaria rivoluzionaria: un uomo che soffriva, un “angelo del nostro tempo”, trasformato in testimonial dei nuovi giacconi della Lineabold, quelli che si riconoscevano subito per l’etichetta d’acciaio con impresso il nome di chi lo indossa. Dopo Ali anche papa Giovanni Paolo II iniziò a girare per la montagna con lo stesso capo di abbigliamento (in versione bianca), ma fu Muhammad Ali a consacrarlo.

Fu complicato convincere Ali?

«Persuadere lui no, ma i suoi legali fu complicatissimo. Mesi di documenti scambiati via fax. All’epoca non si usava l’email e ricordo ancora i lunghi rotoli di carta che uscivano dal telefax con mille clausole tutte in inglese. Tutto appariva in salita, ma alla fine – a settembre 1997 – io, mio babbo Piero e mio fratello Gionata ci trasferimmo al mitico hotel Plaza di New York perché ci fissarono un incontro».

Ne sono cambiate di cose, ora neanche il Plaza è più un hotel.

«Il tempo scorre. Andammo nella sede dell’agenzia IMG e Muhammad fu subito sorridente e simpatico con me. C’era intesa».

Cosa ricorda?

«Fu una emozione enorme, e lui cercò di sciogliere la tensione».

Come?

«Mentre iniziavo a scattare le foto, finse di darmi un pugno. Il mio occhio era incollato al mirino della macchina fotografica. Vidi la sua mano avvicinarsi rapidissima ed ebbi paura, tantoché caddi a terra. Lui si mise a ridere e mi ritirò su con una mano».

Aveva già pensato come impostare lo scatto che poi è stato riprodotto infinite volte?

«La mia idea era di fargli la foto con un fiore in mano. Ed è questa l’immagine che ora vi mostro e che mai è stata pubblicata. È una foto molto intima per me, che sono andato a ripescare per parlarne con voi. All’epoca ragionai a lungo se mantenere o no il fiore. Feci bene a toglierlo».

Muhammad Ali e la moglie Lonnie, lo scatto originale e quello pubblicato da Giacomo Guidi

Sopra, Muhammad Ali e la moglie Lonnie. Lo scatto originale di Giacomo Guidi del 1997 e la rielaborazione fatta per le campagne della Piero Guidi dal 1998

Quante foto scattò?

«Cinque o sei rullini da 36 pose in bianco e nero, pellicola Kodak T-Max 400 iso, usai tre Contax. A un certo punto mi convinsi che avevo fatto la foto giusta. Dissi che bastava. E lui si meravigliò. E mi disse: “Ma come, finiamo qui? Guarda che io domani parto, è complicato rivedersi”. Io ero tranquillo e allora ci siamo messi a mangiare e scherzare».

Cosa le raccontò?

«Si parlò di come io lo vedevo per la campagna, poi mi autografò due guantoni. Un vero tesoro».

Dove sono?

«Li ho regalati. Uno all’ospedale di Urbino, dove andai per un ricovero a nefrologia. L’altro l’ho regalato a mio nipote Alessandro».

Quale fu l’effetto di questo scatto?

«Mediaticamente enorme. Uscì a doppia pagina su il Resto del Carlino, Corriere della Sera e la Repubblica. Subito seguirono articoli su settimanali, anche con la copertina dedicata a questa mia scelta, e servizi tv. Fu una novità assoluta quella di utilizzare Ali. Ma c’era un precedente, la campagna che feci con il regista Michelangelo Antonioni e la moglie Enrica. Omar Calabrese, semiologo tra i più raffinati che ci siano stati, scrisse parole toccanti, ovvero che ci sono “due modi di intendere il divismo: quello pacchiano dei cacciatori di autografi e degli urlatori di strada, e quello di chi sente i propri miti dentro di sé e ne fa dei simboli universali, mantenendo gratitudine per chi li ha impersonati anche quando costui mito non è più. Un’insolita lezione, insomma, di pubblicità umanistica”. Quelle parole consacrarono anche me (parlo del giugno 1998, quando uscì ovunque questa foto scattata nel settembre ’97) ed ero ancor più felice perché capivo che poi avremmo venduto, cosa che accadde, milioni di giacconi identici a quello di Muhammad».

(articolo uscito in edizione cartacea il 5 giugno 2016 a pag. 26 de il Resto del Carlino, edizione di Pesaro)