Casula racconta le malefatte della monetina

L’ex-magistrato: "Furono molteplici". E coinvolge anche i giudici sportivi dell’epoca

L'ex-magistrato Pierfrancesco Casula (Fotoprint)

L'ex-magistrato Pierfrancesco Casula (Fotoprint)

Pesaro, 28 ottobre 2014 - Personaggio è molto noto a Pesaro, per essere stato per tanti anni magistrato, fino a chiudere la sua carriera come presidente del Tribunale di Rimini. Il libro è intitolato «LGM, Lessico Giudiziario Minore». La firma è di Pierfrancesco Casula, magistrato in pensione ed attento osservatore, non solo di fatti giudiziari.

Tra i 48 capitoli del volume di ricordi di vita e di lavoro ce n’è uno, molto interessante, intitolato “Meneghin”, in cui si intrecciano commenti e ricordi tra la giustizia “ordinaria“ e quella “sportiva”. Capitolo in cui si parla della Vis Pesaro (primo fallimento del 1993), si critica il mondo dello sport («Non ho alcun dubbio che anche oggi il mondo del calcio, dai dirigenti ai tifosi si qualifica principalmente per i vasti fenomeni di sottocultura e di illegalità diffusa»), ma soprattutto si racconta una versione, che il dottor Casula definisce “già conosciuta” della famosa vicenda della monetina di Dino Meneghin, che costò alla fine degli anni ’80 uno scudetto alla Victoria Libertas.

Riportiamo la parte del libro che riguarda il caso specifico, che, evidentemente, l’allora magistrato seguì direttamente: «I tifosi pesaresi di basket, in una certa recente estate, hanno ritenuto che nel cielo fosse apparso qualcosa di nuovo con l’ammissione di Dino Meneghin, riguardo alla famosa partita della monetina in testa, di non aver subito danni tali da impedirgli di giocare». E ancora: «Di nuovo in effetti non c’è nulla, né riguardo a quella vicenda né riguardo alla giustizia sportiva passata e presente. In verità tutto quello che ha detto Meneghin, lo aveva già detto e scritto a suo tempo il giudice sportivo della Fip, affermando che appariva indubbio che il giocatore fosse in grado di continuare a giocare regolarmente e che, nondimeno, trattandosi di un giudizio a posteriori, risultava assolutamente lecito averlo accompagnato in ospedale per i necessari accertamenti».

Di qui la sconfitta a tavolino che si giustificava per questo trasferimento. «Il colpevole di tutto — aggiunge il giudice Casula nel suo libro — sarebbe stato dunque il dirigente baffuto e scrupoloso, apparendo altamente verosimile che lo stesso Meneghin lo avesse immediatamente rassicurato sulla sua idoneità a riprendere il gioco». Poi arrivano i retroscena: «Nel giudizio sportivo di primo grado anche i giudici, sulla base di quanto riferito dall’inviato dell’Ufficio inchieste Fip, avevano deciso di rigettare la pretesa milanese di avere la partita vinta a tavolino, ma data l’ora serale avevano rinviato al mattino la stesura della decisione. La mattina dopo il presidente dell’organo giudicante, che era un magistrato romano piuttosto chiacchierato, annunciò al Collegio di aver cambiato idea. Pare che allora sia successo il finimondo e che qualcuno chiese addirittura l’intervento dell’Uffcio Inchieste, una cosa mai vista (...). Sta di fatto che Milano vinse (presumibilmente per un voto) e vinse anche lo scudetto». Conclusione amara: «Sappiamo dunque ormai con certezza — scrive Casula — che le malefatte relative a quella partita furono molteplici e di vario livello (lanciatori di monetine, giocatori, dirigenti e giudici sportivi)».

Sappiamo anche, aggiungiamo noi, che l’autore di quel famoso inganno ai danni della giustizia sportiva è poi diventato presidente della Federbasket. Conclude Casula: «I tifosi avrebbero motivo di auspicare una giustizia sportiva di livello almeno non inferiore a quello della giustizia ordinaria, seppure non eccelso».