Urbino, 7 gennaio 2014 - «I GIACOBITI a Urbino» (editore il Mulino, 236 pagine, 25 euro) è un libro atteso da anni, dopo l'uscita della poderosa versione inglese del 2008. In un sol colpo ci toglie tutte le curiosità sulla figura sospesa nel tempo e affidata all'immaginazione di Giacomo III Stuart, personaggio che noi urbinati abbiamo incontrato fin da piccoli entrando nell'oratorio di san Giuseppe, dove si conserva un ritratto del sovrano. Ai più sembrava inspiegabilmente buttato lì per caso. Non è così. Anzi, diciamolo pure, ad Urbino quasi tutto quello che sembra fatto per caso (almeno fino all'Ottocento) non è affatto frutto dell'improvvisazione.

Dai testi impressi sui monumenti - pensiamo solo alla Cattedrale - all'orientamento di alcuni edifici c'è sempre una logica da riscoprire in quel che appare. La ricerca di Edward Corp - professore emerito di Storia britannica all'Università di Tolosa - è di grande godibilità grazie alla cura messa nell'edizione italiana fatta da Tommaso di Carpegna Falconieri.

Già dalle prime pagine il lettore è subito di fronte ad una certezza: ad Urbino poche cose cambiano nei secoli.

I problemi sono sempre gli stessi: viabilità scarsa, pochi divertimenti, carattere spigoloso degli abitanti, lotte incredibili per ottenere ruoli ed istituzioni, difficoltà economiche. Ma almeno emerge una certezza. Un punto fermo che vale più di tutti i problemi citati: la capacità di essere più volte in ogni secolo al centro degli interessi internazionali.

Con la Corte di Giacomo III Urbino indubbiamente ebbe questo ruolo e negli anni successivi nessuno diede mai importanza a quanto accadde. Certo è che leggendo le pagine vien voglia di bruciare qui le curiosità che emergono dal testo, ma così facendo si rovinerebbe la sorpresa.

Qui vien voglia di far volare la fantasia e sperare che un giorno gli inglesi così bravi e prolifici nel fare le serie tv, si imbarchino nell'impresa di raccontare questa corte in esilio, dove gli equivoci saranno stati all'ordine del giorno. Da un lato avevamo lord inglesi, nobili scozzesi e irlandesi che non sapevano l'italiano dell'epoca, dall'altro la nobiltà di Urbino che si faceva in quattro per ospitare il re.

Possiamo immaginare le attenzioni che avrà avuto il Segretario di Stato (duca di Mar) o quello di Gabinetto (David Nairne). Tutti i giorni c'era un gran viavai di corrispondenza, le spie inglesi ed italiane lavoravano a pieno regime per prevenire attentati e cogliere gli umori più sottili.

Immaginiamo poi che da fare avevano le cucine, col vino che veniva spedito dalla Francia con regolarità. E cosa poteva accadere ogni volta che il re usciva? Vi immaginate una corte intera su e giù per la città, la complessità del corteo per andare a messa dal Palazzo Ducale al Duomo?

Poche decine di metri e chissà quanti preparativi (e possiamo immaginare i litigi). Lo stesso autore nel sesto capitolo, su "Le politiche della Corte" ci informa che i rapporti tra i giacobiti e gli urbinati furono tesi e difficili, al punto tale che «i contrasti tra vecchi e nuovi servitori e tra cattolici e protesanti crebbero a tal punto che non soltanto compromisero l'unità della corte in esilio, ma addirittura le prospettive future dell'interno movimento giacobita».

Tutto questo, non suona familiare?

di Giovanni Lani