Rivoluzione senza politica

A metà del Settecento, l’introduzione della macchina a vapore nel processo produttivo cambiò volto all’impresa e di conseguenza alla società. Fu chiamata “Rivoluzione industriale” proprio per rimarcare lo straordinario cambiamento che la tecnica impresse alle strutture economiche, sociali e politiche. Una rivoluzione, appunto. L’elettricità e poi l’elettronica determinarono nuovi mutamenti, ma la crescita esponenziale del digitale di questi anni, riassunta nella formula “Industria 4.0”, darà senz’altro vita a una “Seconda rivoluzione industriale”. La fatica fisica sarà sempre più un lontano ricordo, la forza lavoro sarà sempre più qualificata, luoghi e orari di lavoro saranno sempre più flessibili. Ha dunque ragione il ministro Giuliano Poletti quando dice che il numero di ore lavorate è destinato a non rappresentare più "l’unico parametro attraverso il quale si potrà misurare la relazione tra il lavoratore e l’opera" che realizza. Ha ragione Poletti, e il fuoco di sbarramento di Cgil, Cisl e Uil dà la misura di quanto la mentalità del sindacato sia ancorata a un modello di sviluppo passato. Una mentalità anacronistica.

Detto questo, Poletti non è un intellettuale ma un ministro; il ministro del Lavoro. Ministro di un governo il cui premier, Matteo Renzi, un anno e mezzo fa annunciò solennemente l’avvio di "una nuova politica industriale". I fatti non sono ancora all’altezza delle parole. In Germania, Paese la cui struttura economica è piuttosto simile alla nostra, si calcola che grazie alla digitalizzazione nei prossimi 15 anni verranno creati 400mila nuovi posti di lavoro. Previsione realistica, perché la Germania una politica industriale ce l’ha sul serio e se l’è data per tempo. Previsione realistica soprattutto perché un simile cambiamento può essere adeguatamente affrontato solo mettendo a sistema tutte le forze del Paese. E in questo i tedeschi sono migliori di noi. Il governo centrale, i lander, le università, i centri di ricerca, gli imprenditori e i sindacati sono tutti impegnati nello stesso progetto e, incredibile a dirsi, remano tutti nella stessa direzione. Hanno capito che nulla sarà più come prima e fanno il possibile per governare il cambiamento anziché subirlo, mettendo di conseguenza mano alla struttura del sistema economico e alle sue impostazioni “culturali”. Perciò il pubblico collabora col privato, si favoriscono gli accorpamenti tra piccole e medie imprese, ci si preoccupa non solo di far nascere ma anche crescere le start up, la ricerca è considerata un bene prezioso sul quale investire. Altrettanto non si può dire dell’Italia. Paese che ancor più della Germania avrebbe bisogno di una regia pubblica e di pubblici investimenti. Non foss’altro perché il 95% delle nostre imprese ha meno di 10 addetti e non è dunque in grado di investire risorse adeguate nella pur necessaria innovazione tecnologica volta a creare una “rete” digitale comune. Come è emerso chiaramente dal convegno organizzato venerdì da Confindustria a Bologna, lo spirito di intrapresa non manca: mancano però la visione e la volontà politiche. Manca la capacità di fare sistema. Perciò l’intellettuale Giuliano Poletti ha ragione, ma il ministro Poletti Giuliano ne ha molta meno.