Faenza, 3 agosto 2011 - DA INFORMATICO a ‘mastro birraio’ in pochi mesi. Marco Tamba ha lavorato per 13 anni in una ditta informatica di Faenza. Poi, poco più di due anni fa, ha deciso di cambiare vita, rilevando l’azienda agricola di famiglia a Solarolo («Fino a quel momento ero l’unico a non aver seguito le orme del padre», sorride). Infine, a dicembre, ha avviato il micro-birrificio ‘La MaTa’: le sue birre sono interamente prodotte con materie prime coltivate nella stessa azienda.

Ora, dopo i primi sei mesi di attività, è in grado di produrre un migliaio di litri al giorno, serve circa 60 clienti tra Faenza, Forlì, Lugo, Brisighella e la riviera riminese, e progetta di espandersi su Ravenna e Bologna. «La birra è una mia passione personale da almeno sei o sette anni — racconta. — Non sono un grande bevitore, ma il mondo della produzione alimentare mi ha sempre affascinato: mi è sempre piaciuto cucinare, fare le marmellate in casa. Poi un giorno, per caso, mentre compravo prodotti per le confetture, ho visto che un ragazzo in fila alla cassa aveva acquistato un preparato per birra: un’illuminazione». Così è iniziata una lunga fase di documentazione, mentre il progetto prendeva forma: «Ho letto molti libri sulla produzione della birra, ordinandoli anche all’estero. Insomma, ho imparato da autodidatta: fin dai primi tentativi ho adottato il metodo dei monaci trappisti, prima arrangiandomi con le pentole di casa, poi comprando pentoloni più evoluti, infine sviluppando un prototipo di impianto, assieme a un mio amico di Firenze». A quel punto, l’idea di trasformare una passione in un progetto d’impresa era già più che concreta. «Mi sono chiesto come mai la maggior parte dei piccoli produttori di birra italiani non usi materie prime italiane — spiega Marco. — In fondo la birra si fa con prodotti agricoli: orzo, malto, luppolo. Così sono andato in Belgio, in Germania, ho approfondito i metodi di coltivazione e li ho applicati a Solarolo. Infine, l’anno scorso, ho ristrutturato una vecchia stalla nella proprietà di famiglia e ho comprato i macchinari». La sua produzione, oggi, ha tre punte di diamante, dai sapori mitteleuropei ma dai nomi decisamente romagnoli: la Dora, una bionda «facile da capire», dal gusto fruttato con accenti di pesca, e con 5 gradi alcolici. La Mora, rossa da 6 gradi, più ‘morbida’, con accenti di caffè e liquerizia che derivano dalla tostatura dei malti. E infine la Lova (‘la golosa’), scura da 8 gradi in puro stile belga, dolce e corposa. Le etichette mostrano una gallina, una civetta e un gatto. «Tra qualche settimana lancerò un quarto prodotto — annuncia Tamba. — Con un gioco di parole l’ho chiamata ‘My Ale’: non è difficile immaginare quale maiale ci sarà in etichetta».