Faenza (Ravenna), 20 novembre 2013 - La crisi c’è, si vede, e le famiglie ‘tagliano’ anche sui generi di prima necessità: nei primi otto mesi dell’anno, la spesa in prodotti agroalimentari è diminuita del 3,7% su base annua. Soltanto per i prodotti di largo consumo, questo significa quasi un miliardo di euro in meno. Nel più recente rapporto dell’Osservatorio di Unioncamere e Regione, emerge che la spesa delle famiglie emiliano romagnole si è ridotta di 115 euro al mese. Eppure l’agroalimentare continua a essere un settore fondamentale dell’economia regionale, sia per le produzioni che per la trasformazione: su quasi 48mila imprese manifatturiere, più di 4900 sono del comparto alimentare e delle bevande. In mezzo a tante incertezze, dunque, ci sono ancora i capitani coraggiosi che ci credono, anche con risultati molto positivi. «Perché hanno applicato innovazione, programmazione e internazionalizzazione», ha sottolineato Giorgio Mercuri, neopresidente nazionale di Fedagri - Confcooperative, la principale organizzazione di rappresentanza di cooperative agroalimentari, che in Romagna ha voluto ‘toccare con mano’ alcune realtà che funzionano. Inizia oggi il nostro viaggio fra queste storie ‘anticrisi’: tre tappe, Caviro (vini), Agrintesa (ortofrutta) e Orogel (surgelati e confetture).

 

IN ITALIA, terra di delizie e bollicine, i consumi di vino sono in picchiata. Cambiano gli stili di vita, «e ogni bicchiere che non si beve più non si recupera», osserva Sergio Dagnino (il video dell'intervista), direttore generale del gruppo Caviro (con sede a Faenza), primo produttore di vino nel nostro Paese, con 34 cantine socie in sei regioni, anche in Puglia e in Sicilia. Nonostante il panorama economico piuttosto fermo, le cifre di Caviro sono frizzanti: nel 2012 i ricavi sono stati record, 283 milioni di euro, in crescita del 15%, e per il 2013 si prevede di arrivare a 330, grazie anche all’acquisizione di marchi di eccellenza come le etichette toscane Leonardo e Da Vinci, ovvero chianti e brunello di Montalcino del segmento ‘superpremium’, destinato anche a ristoranti di lusso.

SONO più di 13mila i viticoltori (in gran parte soci) che conferiscono a Caviro: lo scorso anno il gruppo ha lavorato quasi 500mila tonnellate di uva, praticamente il 10% del totale italiano, e la vendemmia 2013, molto generosa, porterà a toccare le 580mila tonnellate. Nel 2012 dalle cantine sono stati prodotti 194 milioni di litri di vino: i famosi brik di Tavernello e Castellino, confezionati nello stabilimento di Forlì, arrivano sulle tavole di sette milioni di famiglie italiane, «e ogni otto secondi alla cassa di un supermarket viene battuto un nostro prodotto», sorride Dagnino: il 65% delle vendite infatti viene realizzato proprio nella grande distribuzione, a cui si aggiungono anche i ricavi realizzati con le ‘private label’, ovvero i vini confezionati con i marchi delle principali catene commerciali. Ma «siamo nel pieno del mercato globale», aggiunge il presidente Carlo Dalmonte, e in mezzo a questi venti di crisi l’Italia non basta più.
Allora si guarda a nuovi prodotti (come il Tavernello varietale in vetro, Chardonnay o Syrah Cabernet, venduto a meno di 3 euro a bottiglia) e si punta sui mercati esteri che si affiancano a quelli storici come l’Inghilterra e la Germania: ci sono «grandi progetti» per gli Stati Uniti e la Cina, e l’obiettivo è arrivare al 2016 con un terzo del fatturato dalle esportazioni.

IL VINO, comunque, non è tutto. Con un investimento di 100 milioni negli ultimi anni, Caviro ha dato nuova vita all’area della sua distilleria alle porte di Faenza: «Prima era monoprodotto, ora è in grado di fare tutto, compresa la farmaceutica», spiega il dg. Qui si producono gli alcool neutri per primarie aziende di liquori, ma anche l’alcool puro al 99,9% che è la base di un famoso colluttorio, venduto in tutta Europa, e l’acido tartarico utilizzato nelle medicine. E il business si è allargato all’energia: la centrale termoelettrica a biomasse, realizzata tre anni fa (e gestita in partnership con Hera), è alimentata dagli scarti agroalimentari e della lavorazione dell’uva, ma anche dai biogas prodotti dalla depurazione dei residui della distillazione dei mosti e delle acque reflue di industrie alimentari. «Nulla dunque va perduto», dice Dagnino. E una parte dell’energia può anche essere rivenduta alla rete nazionale: così i bilanci possono brindare.

Stefano Marchetti