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UN LIBRO e il suo autore sul banco degli imputati. Il libro ha titolo ‘I lunghi mesi del 1945’, l’autore è Gianfranco Stella, scrittore ravennate che ha scelto il fronte della storia contemporanea, ovvero l’immediato dopoguerra nel Ravennate e zone circostanti, quale terreno di ricerca soprattutto ‘controcorrente’. Stella è a processo, per diffamazione, per aver scritto, nel capitolo ‘Segato a metà in valle’, che Giacomo Trombini, quale capo partigiano di Marina di Ravenna si era macchiato di orrendi fatti di sangue e, soprattutto, che proprio l’essere venuto a conoscenza di quel passato era stata forse la molla che aveva spinto al suicidio, in valle, nell’estate del 1985, il figlio, Roberto Trombini, all’epoca amministratore delegato della Rafal. A querelare Stella è stato Andrea Trombini, all’epoca — il 2005 — presidente dell’Associazione Industriali di Ravenna.
All’udienza di ieri, il ‘colpo di scena’, rappresentato da una dichiarazione scritta rilasciata a Stella il 26 agosto del 2005 da Carmine Sgrò, vicequestore di polizia e prodotta dal difensore, l’avvocato Carlo Benini. Sgrò, deceduto nel 2008 all’età di 82 anni, scrive che, giunto a Ravenna come vice commissario aggiunto il 26 luglio 1945, conobbe Giacomo Trombini con il quale entrò in familiarità. «Dai carabinieri del luogo seppi che era stato capo dei partigiani comunisti di Marina di Ravenna e della valle circostante e che su di lui si dicevano cose orrende, che fu feroce con i nazifascisti. Si diceva ad esempio del sequestro e della scomparsa di certo ‘Pipetto’, noto fascista di Marina, il cui corpo non fu mai trovato. Un figlio del Trombini, Roberto, che ho conosciuto bene, si tolse la vita dopo aver saputo tutto sul passato di suo padre come partigiano. Si sparò in valle nel 1985».
Aveva detto Andrea Trombini, il cui esame aveva aperto l’udienza di ieri, rispondendo a una domanda dell’avvocato Benini: «Sì, la mia famiglia conosceva il vice questore Sgrò».
«Quella dichiarazione di Sgrò — ha detto Stella durante il lungo controesame (il pm Lorenzo Casalboni, gli avvocati di parte civile Giovanni Scudellari e Mauro Cellarosi) — appresa dapprima oralmente durante una cena, mi convinse a scrivere quel capitolo del libro. Erano vent’anni che a Marina mi raccontavano dell’ ‘uomo tagliato a metà in valle’ ma non avevo mai voluto credere a tali efferatezze, le ritenevo affermazioni non provate, vox populi, esagerazioni. Ma quella dichiarazione di una persona che a Ravenna nel dopoguerra aveva la funzione di commissario, mi convinsero. Per di più aveva frequentato la casa dei Trombini. Ho comunque cercato di avere riguardo per la famiglia Trombini e per questo non ho fatto affermazioni drastiche a proposito del suicidio e anche del ruolo di Giacomo Trombini».
Dopo la produzione del documento, ammesso dal giudice Francesca Zavaglia, l’avvocato Giovanni Scudellari ha chiesto un’ulteriore attività istruttoria, ovvero di poter rivolgere ad Andrea Trombini una domanda cruciale, ovvero fino a quando Sgrò aveva frequentato la sua famiglia. Ma il giudice non ha ritenuto indispensabile, ai fini della decisione, la domanda.
Quello del documento non è stata l’unica novità dell’ udienza. L’avvocato Benini ha chiamato a testimoniare la figlia di Giacomo Tabanelli, medico condotto a Marina di Ravenna già nel 1945. La teste ha letto uno scritto autografo del padre, consegnato anni addietro a Stella, in cui si raccontava di un episodio di cui fu testimone. «Un giorno ero davanti alla sede del Cln a Marina. Vidi scendere un ragazzo col volto tumefatto, sanguinante, salì su una Guzzi rossa con Giacomo Trombini. Di quel giovane non si è saputo più nulla». Secondo Stella fu proprio quel giovane, un repubblichino, a essere portato in valle e ucciso. «Ho scoperto la sua identità, era nato a Comacchio e al cimitero la sua tomba è vuota perchè il suo corpo non è mai stato trovato».
MA SE QUESTO è il versante della difesa, ben diversa è la prospettiva da parte dei patrocinatori di Andrea Trombini. L’esame dell’imprenditore e dei testi della difesa hanno sgomberato il campo dalla circostanza per cui Roberto Trombini si fosse ucciso per motivi collegati al passato del padre. «I rapporti fra Roberto e suo padre sono sempre stati ottimi. Fu nostro padre ad affidare a Roberto la guida della Rafal. Quando Roberto si è ucciso nessuno di noi è riuscito a darsene una spiegazione. Non c’era motivo per una fine così tragica. Ancora oggi non riusciamo a comprendere il perchè di quel gesto» ha evidenziato Andrea Trombini il quale ha aggiunto: «Mio padre è stato un partigiano combattente, ricordo che raccontava di azioni di guerriglia finalizzate a sottrarre armi alle truppe tedesche. Mio padre non era un capo partigiano, ma solo un partigiano. Comandante era mio zio, Gaetano». Le domande poste dall’avvocato Scudellari e dall’avvocato Cellarosi si sono concentrate soprattutto su quel passaggio del libro riferito al suicidio in valle di Roberto. Prossima udienza e sentenza, a metà dicembre.
Carlo Raggi