Simona Vinci, in viaggio per raccontare la follia

Alle 18.30 la vincitrice del Campiello dialoga a Palazzo Rasponi con Carlo Lucarelli sul suo ‘La prima verità’, ambientato fra l'isola greca di Leros, la Sierra Leone e l'Emilia

Simona Vinci con il premio Campiello

Simona Vinci con il premio Campiello

Ravenna, 26 ottobre 2016 - LA PRIMA VERITÀ è un viaggio di andata e ritorno da Budrio, nella bassa bolognese, a Leros, un’isola greca del Dodecaneso, vicina alla Turchia, dove oggi sbarcano i migranti in viaggio verso l'Europa. Ma fino a non molto tempo fa Leros ospitava uno degli ultimi manicomi del continente. È partendo dalle storie raccolte e immaginate in questi luoghi che Simona Vinci ha scritto nell’arco di otto anni il libro, potente e incredibilmente complesso, che ha vinto l’ultimo premio Campiello, raccontando la follia e il modo in cui l’etichetta di ‘folle’ è stata utilizzata nel tempo da medicina, società, potere politico. La storia si dipana a partire dall’arrivo nel 1992 di una giovane ricercatrice, Angela, sull’isola. Poi si espande, nello spazio e nel tempo.

L’autrice sarà stasera alle 18,30 a palazzo Rasponi, dove dialogherà con il collega Carlo Lucarelli per ‘Il tempo ritrovato’.

Simona Vinci, cosa succede a una scrittrice che vince il Campiello?

«Un aumento esponenziale delle richieste di presentazioni e incontri! Che è cosa bellissima, soprattutto di questi tempi in cui i libri durano un paio di mesi, ma anche molto stancante».

Perché un romanzo sulla follia e sui manicomi oggi?

«Perché i manicomi, intesi come li si intendeva un tempo e fino alla legge Basaglia non esistono più, ma le statistiche ci dicono che il disagio mentale nella popolazione è in costante aumento, ed è uno degli argomenti di cui meno si parla; non a caso, nella giornata della salute mentale, il 10 ottobre scorso, la Siep (Società di Epidemiologia psichiatrica) ha inviato alla ministra Lorenzin e ai presidenti delle regioni una lettera aperta sottoscritta dalla gran parte dei direttori dei DSM in cui si chiede di ‘restituire priorità al tema della salute mentale’ (qui il link alla lettera http://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?approfondimento_id=8252)».

In Romagna c’era il manicomio di Imola, lo ha mai incrociato nelle ricerche?

«L’ho incrociato ma i due fuochi/luoghi del libro erano per me Leros e Budrio».

È un libro che mette insieme più piani temporali, più storie, più generi: autobiografia, saggio, romanzo, poesia. Quanto è stato difficile unire tutto? Ci sono stati momenti in cui ha temuto che non sarebbe stato possibile?

«No, mai, l’ambizione esagerata con la quale sono partita si è certamente scontrata con i miei limiti tecnici, ma ho sempre avuto ben presente che tipo di libro volevo scrivere e che dentro doveva esserci tutto questo. Il lavoro sulla struttura è stato estenuante, sia per me che per il mio editor, Severino Cesari, ma io sono stata ostinata e lui comprensivo. Volevo così e così è stato. Certo, a un certo punto ho temuto che la casa editrice potesse decidere di non pubblicarlo».

Ha viaggiato per scrivere questo libro. E’ stata a Leros, poi in Sierra Leone. Cosa significa per uno scrittore andare sul posto, immergersi nei luoghi che si vogliono raccontare?

«I luoghi parlano. Se non li conosci, come fai a raccontare le storie segrete che solo loro possono raccontarti? Soffro molto quando desidero raccontare una storia ma non ho la possibilità di conoscere e vivere i luoghi che per me non sono uno sfondo o un’ambientazione, ma personaggi essi stessi».

Anni fa ha scritto anche un libro di viaggio ‘Nel Bianco’, su Islanda e Groenlandia nel quale, forse inaspettatamente, ha incontrato altre storie ‘ai margini’ e di sofferenza. in che modo l’esperienza sul posto è stata diversa?

«La prima differenza (abissale) che mi viene in mente è la ‘lingua’. Nel piccolo paese in cui sono stata in Groenlandia si parla danese e inuit. Qualcuno tra i più giovani parlava inglese ma non è stato facile riuscire a creare un clima di intimità con le persone che ho incontrato».

Dopo essere andati molto lontani si torna nelle sue terre, a Budrio, è il momento in cui il romanzo diventa anche autobiografico. Come è nata questa parte?

«Questa parte è arrivata alla fine del ‘viaggio’, l’io narrante che apre e chiude il romanzo è arrivato negli ultimi due anni di lavoro e l’ho anche combattuto perché non volevo scrivere di me, ma volevo raccontare le storie di altri, poi ho capito che resistergli non serviva, anzi. Per raccontare quello che hai vicino a volte devi andare lontano, è da quel lontano che ho capito quali fossero le radici, piantate dentro di me, della mia esperienza personale e del posto in cui sono cresciuta».

Stefanos è ispirato al poeta Ghiannis Ritsos: aveva timore di utilizzare nel suo romanzo un personaggio realmente esistito, di attribuirgli azioni, pensieri, parole?

«Molta paura, e infatti l’ho chiamato in un altro modo. Ho preso a prestito eventi della sua vita, cambiandone i tempi. Ho osato scrivere le poesie di questo poeta ‘minore’, personaggio letterario, rubando e rielaborando versi delle sue poesie ma cercando di non sovrapporre troppo le due figure».

Alcuni dei personaggi ai quali il lettore si sente più vicino sono quelli che provano empatia per le persone che incontrano: Angela, Stefanos, l’Io della fine del libro più autobiografica. E’ l’empatia che ci rende umani?

«Ho capito questa cosa dentro un bus a New York nel 2006, era da un anno che non uscivo di casa, soffrivo di attacchi di panico da due, per una decisione improvvisa sono partita e mi sono ritrovata da sola al centro esatto di una metropoli, dentro un autobus piantato nel traffico all’ora di punta, da sola: gli occhi e l’empatia di una giovane infermiera mi hanno sostenuta, lì ho capito che nessuno si salva da solo».

Leggendo il libro si scopre che Leros un tempo ospitava il manicomio e ora ospita i migranti.

«L’ho scoperto alla fine dell’ultima riscrittura e ne sono rimasta al tempo stesso sconvolta e però non più di tanto stupita: ho sempre creduto che i luoghi attraggano un certo tipo di eventi».

È stata sorpresa dalla reazione dei lettori?

«Molto sorpresa, non speravo che un tema del genere, soprattutto dentro un romanzo che contiene tanti generi diversi ed è, da un punto di vista tecnico, abbastanza poco digeribile riuscisse a raggiungere un pubblico abbastanza vasto e vario e invece evidentemente il mio intuito mi ha guidata. Anche di fronte a richieste di ‘semplificazione’ non ho ceduto».

Nonostante la sua complessità il libro mi è sembrato in larga parte molto visivo e molto cinematografico. Ha già avuto qualche contatto?

Per ora no. Se devo dire la verità, dal cinema italiano non mi aspetto niente: non c’è alcun elemento che possa trasformare questo testo in ‘commedia’, i piani temporali sono tanti, tanti i luoghi le storie e i personaggi, forse verrebbe una bella miniserie. Sogno segreto: Lars Von Trier. C’è un “Lars Von Trier” italiano, magari femmina?