FAENZA (Ravenna), 10 marzo 2012 - Non più collant, ma salotti. Non più Omsa ma Poltrone e Sofà. La storico calzificio faentino, simbolo negli anni ’40 e ’50 del lavoro e dell’emancipazione femminile, spegne le ultime tre macchine ancora in funzione e chiude definitivamente i suoi cancelli mercoledì prossimo. Fra qualche mese quei cancelli si riapriranno per accogliere le maestranze che non produrranno più calze, ma poltrone, divani e sofà. Luciano Garoia, amministratore delegato di Atl Group, industria del mobile imbottito di Forlì, conferma che è la sua azienda che sta acquistando l’Omsa (44mila metri quadri di capannoni lungo l’autostrada a ridosso del casello di Faenza) da Golden Lady.


«Sì, siamo in trattativa — afferma — il gruppo delle banche ha già deliberato, ma è tutto sulla carta. Diciamo che la trattativa sta andando in porto, ma ancora non c’è stata formalizzazione». L’accordo sarà concluso in Regione lunedì mattina, con le istituzioni, i sindacati e i due gruppi industriali Golden Lady e Atl Group. L’investimento impegna il gruppo Atl per 20 milioni, 13 per l’acquisto, i rimanenti per la riconversione del sito e l’acquisto dei macchinari necessari. Tutto finanziato da un pool di banche (Banca Intesa, Banco di Credito Cooperativo e Banca di Romagna) coinvolte dal ministero dello Sviluppo economico e dal Comune di Faenza.


«Mancano dei dettagli — conclude Garoia — ma entro un mese potremmo dichiarare conclusa la questione». E forse entro sei mesi, il tempo della cassa integrazione in deroga concessa pochi giorni fa da Roma, nell’ormai ex Omsa riprenderà l’attività con 200 dipendenti Atl che dovrebbero essere trasferiti da Forlì, 120, forse qualcuna in più, le donne e gli uomini dell’ex calzificio.


L’Atl, progetta con questa operazione di ampliare la produzione, passando da 400 a 1000 pezzi al giorno, per soddisfare le commesse del marchio ‘Poltrone e Sofà’. Il gruppo ha due stabilimenti a Forlì e uno a Bertinoro, dove impiega complessivamente oltre 300 addetti.

La crisi Omsa si è aperta ufficialmente a Natale del 2009, quando Nerino Grassi, patron del gruppo Golden Lady che aveva acquisito il calzificio nei primi anni Novanta, annunciò l’intenzione di chiudere la fabbrica, lasciando senza lavoro 346 dipendenti, prevalentemente donne. Una scelta motivata, come chiarì subito Golden Lady, non dalla crisi, ma dalla delocalizzazione della produzione in Serbia. Dopo due mesi di presidio al gelo, di fronte ai cancelli della fabbrica, al ministero fu firmato un accordo che consentiva a Golden Lady di chiudere lo stabilimento, dava due anni di cassa integrazione straordinaria alle operaie e impegnava la proprietà a lavorare alla riconversione del sito produttivo.
 

Un accordo approvato a maggioranza dai lavoratori, ma che ha creato forte spaccature nel fronte sindacale e fra le lavoratrici, divise fra chi ha ritenuto di attendere in fiducioso silenzio la soluzione della crisi e chi ha voluto denunciare con forza il ‘furto del proprio lavoro’ raccontando questa storia in tutt’Italia.

di Claudia Liverani