Reggio Emilia, scontri tra imputati in carcere. "Già due quelli sfregiati"

Profonde cicatrici sul volto, che nel linguaggio della ‘ndrangheta parlano chiaro. Lame prodotte con i coperchi delle scatolette di tonno

Il processo Aemilia

Il processo Aemilia

Reggio Emilia, 19 luglio 2017 - Sfregi sul volto, che nel linguaggio della ‘ndrangheta parlano chiaro. Lame prodotte con i coperchi delle scatolette di tonno, all’interno delle celle. Questo sta accadendo dietro le sbarre, all’ombra del processo Aemilia, mentre nei tribunali di Reggio e Bologna sono in corso le udienze alla mafia radicata al nord.

Stanno cominciando le testimonianze, ieri, quando i difensori di Palmo e Giuseppe Vertinelli chiedono che i loro assistiti possano uscire dalla gabbia e sedersi tra i banchi, a fianco degli avvocati. I pm antimafia, però, obiettano: ragioni di sicurezza. Poi, entrano nello specifico. Circa cinque mesi fa una aggressione è avvenuta all’interno del carcere di Reggio, tra gli imputati del processo Aemilia. Tra loro c’erano Gianni Floro Vito e Gabriele Valerioti, quest’ultimo rimasto vittima di uno sfregio nel penitenziario.

Un secondo episodio di violenza è avvenuto sabato, al carcere di Bologna, fra Roberto Turrà e Francesco Frontera (già condannati in abbreviato rispetivamente a 9 anni e 6 mesi e 8 anni e 10 mesi); Frontera sarebbe rimasto vittima di un altro sfregio, secondo quanto è stato raccolto dagli inquirenti.

«Sabato c’è stato uno scontro fisico importante in carcere, documentato dalla polizia penitenziaria di Bologna, tra coimputati», dice il pm Marco Mescolini. Altri input, elementi investigativi raccolti dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna, hanno portato a una perquisizione effettuata nelle scorse settimane alla Pulce. E l’esito è stato positivo.

La nota della penitenziaria è del 26 giugno e parla del «reperimento di strumenti atti a offendere, coltelli artigianali e un temperino» che sarebbero stati sequestrati agli imputati Vincenzo Mancuso, Antonio Muto classe ’55 e Antonio Muto classe ’78, Gaetano Blasco, Palmo e Giuseppe Vertinelli e Gabriele Valerioti.

Lame artigianali, costruite con i coperchi delle scatolette di tonno. Cibo che viene regolarmente venduto in carcere, ma la disposizione è che degli involucri i detenuti dovrebbero disfarsi subito. Di fatto, però, questo non avviene. E quelle linguette di latta, modificate e forgiate, diventano poi strumenti molto pericolosi. Così com’è avvenuto nell’istituto di via Settembrini.

Gaetano Blasco, dalla gabbia, ha chiesto di intervenire: «A me presidente è stato sequestrato un temperino, non un coltello. Un temperino, presidente. E mi serve per curarmi i calli dei piedi. Ho dei calli che non mi fanno vivere… Non un coltello». Allora interviene il presidente Caruso: «In calce alla nota degli agenti, c’è scritto che i detenuti si sono difesi dicendo che quegli strani coltelli servono loro per la preparazione del cibo». Nell’attesa di avere dettagli più precisi sulle aggressioni, durante l’udienza di ieri, il giudice ha fatto scortare i detenuti – sempre sorvegliati a vista da due agenti – fuori dalle gabbie.

Segnali comunque da non sottovalutare. «Lo sfregio era un marchio d’infamia che additava al pubblico disprezzo la persona sfregiata. C’era solo un modo per riscattarsi: la vendetta», scrive lo studioso Antonio Nicaso nel suo libro ‘Senza Onore’. «Nella mentalità della ’ndrangheta, come in quella contadina, lo sfregio era una ferita permanente. Era il volto a essere sfregiato. Una ferita che non era possibile nascondere, dissimulare, coprire. Chi la portava era segnato per tutta la vita. In questo modo, la ’ndrangheta parlava a tutti senza pronunciare parola; un linguaggio non del corpo, ma sul corpo».