Processo Aemilia, "Il clan minacciò l’Udinese, Iaquinta doveva tornare in campo"

Il pentito Muto: "Volevano fare pressioni anche sulla Juve" AGGIORNAMENTO / La sentenza di primo grado. Due anni a Iaquinta, 19 ani padre

Giuseppe e Vincenzo Iaquinta (foto Artioli)

Giuseppe e Vincenzo Iaquinta (foto Artioli)

Reggio Emilia, 18 novembre 2017 - Salvatore Muto ha deciso di collaborare con la giustizia, a un passo dalla sentenza del processo Aemilia che lo vede imputato. E dopo la stangata a 18 anni di galera ricevuta nel primo grado del processo ‘gemello’ Pesci di Brescia.

AGGIORNAMENTO / La sentenza di primo grado. Due anni a Iaquinta, 19 ani padre

Ora, dai verbali delle sue prime deposizioni, spuntano pesantissime accuse nei confronti di Giuseppe e Vincenzo Iaquinta (padre e figlio, entrambi alla sbarra nel procedimento). «Muto afferma che Giuseppe Iaquinta è esponente del sodalizio ’ndranghetistico emiliano e ha partecipato a numerose riunioni della consorteria. Giuseppe Iaquinta, Alfonso Paolini, Antonio Muto (classe 1955) e Pasquale Brescia, attraverso la partecipazione al sodalizio, erano consapevoli di poter esprimere il loro ‘dominio’ sul territorio di Reggio, così che nessuno li avrebbe potuti toccare, disturbare, ma per imporsi su terzi», si legge nelle carte.

Al punto che, in due occasioni, il clan sarebbe voluto intervenire per fare intimidazioni e minacce nei confronti delle società sportive che non facevano giocare Vincenzo, campione del mondo nel 2006 a Berlino. Il primo episodio nel 2007 con l’Udinese, dice il pentito; il secondo cinque anni dopo con la Juventus.

«In una occasione nel 2012 durante un incontro al nord (non ricorda se in Emilia o a Cremona), Paolini, il boss Nicolino Sarcone, Muto e Francesco Lamanna (capo della consorteria a Cremona, ndr) si sono parlati per intervenire a favore di Giuseppe Iaquinta che aveva il problema che il figlio Vincenzo non veniva schierato dal suo allenatore nella Juventus», si legge nelle carte. Paolini e Iaquinta, secondo il pentito, «erano molto amici con Luciano Moggi e andavano a trovarlo a Siena (Monticiano) dove Moggi ha una tenuta di cavalli». Ma «quando Vincenzo aveva avuto problemi con la Juventus, non avevano potuto utilizzare questo canale perché Moggi non era più nella Juventus. Per questo è stato interpellato il sodalizio ’ndranghetistico emiliano e Nicolino Sarcone si voleva impegnare per risolvere questo problema di Iaquinta». Ma poi «Muto non sa se vi sia stato un effettivo intervento». Interpellata sulle dichiarazioni, la società Juventus ha preferito non rilasciare commenti.

Secondo le cronache sportive, Vincenzo Iaquinta è rimasto in bianconero dal 2007 al 2013, con un contratto di cinque anni terminato a naturale scadenza. A gennaio 2012 andò in prestito sei mesi al Cesena (sotto la panchina di Conte).

Ma secondo il pentito non era la prima volta che il clan interveniva per risolvere problemi a Vincenzo Iaquinta. Sarebbe stato Lamanna a spiegargli dell’episodio avvenuto quando l’attaccante giocava nell’Udinese con il presidente Pozzo, «essendoci stato un periodo in cui non veniva fatto giocare né veniva ceduto». In sostanza, Ernesto Grande Aracri (fratello minore del boss Nicolino) avrebbe «mandato ‘il figlio di compare Nunziato’ con alcuni suoi uomini, a minacciare l’entourage della società di calcio dell’Udinese affinché facesse giocare oppure mettesse in vendita Vincenzo Iaquinta, cosa che effettivamente è avvenuta», dicono le carte.

E, quasi come una ricompensa, una volta arrestato Ernesto Grande Aracri avrebbe chiesto un paio di scarpe da calcio e i due Iaquinta glielo avrebbero fatto arrivare in carcere. «Le dichiarazioni in merito alla cessione nel 2007 del giocatore Vincenzo Iaquinta sono destituite di ogni fondamento – fa sapere Cs Udinese in una nota –. Udinese Calcio rigetta qualsiasi affermazione apparsa sui media che rimandi a possibili pressioni ricevute in merito alla cessione di propri giocatori».

Anche il difensore dei due Iaquinta, l’avvocato Carlo Taormina, smentisce: «Ogni tanto emerge una nuova rivisitazione dei fatti, guarda caso non mancano mai né Giuseppe né Vincenzo Iaquinta – commenta –. Ma finora in dibattimento tutto ciò che è stato detto dagli altri pentiti è sempre stato smentito. Si tratta di manovre strane sulle quali bisognerebbe fare qualche approfondimento; le faremo quando saremo usciti da questo processo. Ma noi siamo tranquilli della nostra posizione. A questo proposito citeremo Marchisio, per sapere se ciò che ha detto il pentito Valerio sia vero: ossia che il calciatore abbia partecipato a un incontro in un locale notturno in Emilia Romagna con diversi imputati. Citeremo tutti a questo punto, Antonio Conte, la famiglia Pozzo e vedremo chi ha ragione».