Reggio Emilia, 17 marzo 2016 - SE un tal Ken Follett arriva a twittare «questo romanzo è stato il mio paradiso», sul primo libro di Donato Carrisi, ecco che le gambe iniziano a tremare, anche a un intrattenitore navigato come lui. Carrisi, classe 1973, nato a Martina Franca, un passato da avvocato, poi specializzato in criminologia e scienze del comportamento, prima di diventare sceneggiatore per la tv e per il cinema, presenterà oggi alle 18 alla libreria All’Arco il suo sesto thriller, La ragazza nella nebbia. Uscito a novembre (per Longanesi), ha già venduto qualcosa come 350mila copie.
Carrisi, questo romanzo è già la sceneggiatura di un film?
«Sì. Siamo in fase di casting. Il regista sarò io. Perché conosco la macchina e so come muovermi. Ho fatto prima questo ‘sporco’ mestiere, poi da sceneggiatore sono diventato scrittore. Il passo è breve».
È un libro che si legge d’un fiato, questo. Capitoli brevi, racconta per immagini.
«Non mi lascio mai andare a ‘pippe’ da scrittore, io; scrivo sempre come un lettore, come uno spettatore. Tutti i miei libri nascono come film».
Al centro di questo romanzo c’è il circo mediatico che ruota attorno ai casi di cronaca nera. Il rapporto fra giornalismo e fonti, la curiosità di chi guarda...
«Facciamo tutti parte dello stesso circo, scegliamo cosa guardare. Il pubblico decide di guardare trasmissioni sui delitti, piuttosto che leggere un bel libro... È lo spettacolo del dolore».
Non è un giudizio morale, il suo?
«No. Anche io faccio parte del circo e sono fiero di farne parte: è il pop dei nostri tempi. Il sangue attira, possiamo fare i moralisti, ma alla fine anche i vangeli parlano di una morte cruenta».
La categoria dei cronisti di nera e giudiziaria ne esce con le ossa rotte però.
« Non è il giornalismo è il sistema che non va. E macella chi è a processo. L’uomo della strada questa cosa non la capisce finché non gli capita. Ma è molto facile essere vittima di un errore giudiziario e qui parla il giurista, non lo scrittore. È un sistema che ti stritola. Penso a Enzo Tortora, a Sollecito e Amanda, accusati senza uno straccio di prova. O al caso di Avetrana, dove sono in carcere zia e cugina per un’intervista improvvida, mentre il reo confesso è fuori. Bossetti? Avevamo già deciso che era un mostro perché gli piaceva farsi le lampade... »
Tra le righe del libro sembra quasi di rivederli, alcuni dei grandi casi di cronaca nazionale. È così?
«La mia ispirazione nasce sempre da casi reali è normale. Il paesino in cui è ambientato potrebbe essere Cogne, la famiglia quella di Yara... »
Un successo planetario, il suo, con i libri pubblicati in 23 Paesi. Può dare alla testa?
«Mi fa immensamente piacere, ma so anche che può finire domattina e ho molto i piedi per terra. L’importante per me è raccontare».
La recensione di Ken Follett è incredibile...
«La cosa più galvanizzante per me non è che abbia letto il libro e detto quello di me. È che abbia comprato il mio libro. L’ha comprato in aeroporto... è questa la follia! Avrei dato oro per essere lì».