L'incontro miracoloso: ‘Ecco i genitori di chi mi ha dato il cuore’

Dopo il trapianto scopre il nome del ragazzo. E sulla tomba incontra il padre

Armando Federico Ceccati con i genitori di Federico: Enrico Lusuardi e Laura Antinogene

Armando Federico Ceccati con i genitori di Federico: Enrico Lusuardi e Laura Antinogene

Reggio Emilia, 1 febbraio 2015 - «I miracoli sono ben più quotidiani di quanto non crediamo, se noi ci credessimo staremmo molto meglio. E il dono è un miracolo». Cosi il vescovo Massimo Camisasca ha racchiuso il senso del convegno: “Il valore della donazione: dal dono del tempo alla donazione estrema”, che si è tenuto ieri mattina nell’aula magna dell’università, organizzato da Lions club Albinea e Fondazione Guido Franzini Onlus, in collaborazione con Rotary Club e UniMoRe. «Noi nasciamo da un dono – ha affermato don Massimo (come vuole essere chiamato il vescovo) - e nel dono ci realizziamo. Occorre recuperare la coscienza del dono per poter vivere da uomini veri, che pensano, amano e sanno vivere il tempo e la libertà».

Numerosi gli interventi che si sono susseguiti al convegno, concluso da Armando Federico Ceccati, Laura Antinogene ed Enrico Lusuardi che hanno illustrato il loro toccante libro autobiografico: “Il Trattore e la Carriola. Un cuore per due”.

«Ho incontrato la famiglia del giovane Federico, che mi ha donato il cuore grazie al quale vivo, davanti alla sua lapide al cimitero - dice commosso Armando Federico Ceccati, 47 anni, di Cavola di Toano, sottoposto a un trapianto di cuore nella notte fra il 9 e il 10 dicembre del 2003 -. Mi ha visto suo padre Enrico, era dietro di me. Quando mi sono girato, lui mi ha chiesto: ‘Ma tu sei Armando?’ Era trascorso un anno e mezzo dal trapianto. Di quel momento intensissimo ricordo solo il grande abbraccio col padre ,poi con la mamma Laura e la sorella Rossana. Eravamo emozionatissimi».

È stato difficile incontrarli?

«Sì. Sapevo che dovevo farlo, ma avevo tanta paura. Dopo l’intervento ero felicissimo, stavo bene, avevo aspettato solo una settimana in lista d’attesa. Poi ho preso coscienza: se io ero in vita, un altro era morto per me, ciò mi ha procurato un forte senso di colpa, fino a soffocarmi. Mi sentivo in debito, l’idea mi sconvolgeva. Ho sofferto molto».

Come ha scoperto chi era il suo donatore?

«Mia zia mi aveva avvertito dell’incidente. Poi ho letto le cronache, ho fatto i conti con le date, ho capito e ho visto la sua foto: un colpo fortissimo. Volevo conoscere i suoi genitori, però non mi sentivo pronto».

Come li ha conosciuti?

«Avevo lasciato un biglietto senza nome, sulla sua tomba, come se fossi stato un amico. Così i genitori hanno capito. Poi l’incontro. All’inizio mi sentivo inadeguato, sono stati loro ad aiutarmi. Ci siamo rivisti, conosciuti. Sono persone splendide, per loro sono un grande amico. Ci si trova. Siamo una famiglia allargata e ci unisce la stessa forza e passione per il dono, la gratuità verso gli altri. Dopo il trapianto sono divenuto donatore. Non dobbiamo privarci dell’opportunità di rivivere donando la vita, Federico è come se fosse mio fratello biologico e ho scelto di portare anche il suo nome».