Mercoledì 24 Aprile 2024

L'inutile contratto

E' TIPICO dei non politici pretendere di regolare le questioni politiche facendo ricorso a espedienti giuridici. Nel 2009, Silvio Berlusconi pensò di scoraggiare i voltafaccia degli alleati costringendoli a firmare un patto di legislatura in forma di atto notarile. Non se ne fece nulla, ma il Cavaliere non si rassegnò e nel 2013 invitò i candidati del Pdl a sottoscrivere il “Patto del parlamentare”, un alato testo che al punto 4 recitava: «Prometto solennemente di non tradire il mandato degli elettori passando ad altro gruppo parlamentare». Lo tradirono in massa. Ora è il turno di Beppe Grillo. Il quale, come fece prima di lui Antonio Di Pietro con gli eletti dell’Idv, obbliga i candidati pentastellati a firmare un contratto che li vincoli alla fedeltà politica: a chi devia dalla linea del partito sono inflitte multe salate. Laddove la virtù scarseggia, si confida nella necessità. Come atto simbolico, il contratto grillino ha il valore che ciascuno vuol dargli. Come atto giuridico non vale nulla, essendo in evidente contrasto con l’articolo 67 della Costituzione. Quello che vieta il «vincolo di mandato» per i parlamentari.

DETTO ciò, il problema esiste. A oggi, sono infatti 248 gli eletti che, dopo le politiche del 2013, hanno cambiato gruppo parlamentare almeno una volta. Uno su quattro ha dunque voltato gabbana. Un record assoluto nella storia parlamentare della Repubblica. Un record che si spiega col fatto che quella in corso è una legislatura di transizione tra un sistema politico invecchiato presto e male e uno nuovo ancora allo stato embrionale. Qualcosa del genere avvenne nella seconda metà dell’Ottocento, quando la Destra e la Sinistra storiche esaurirono la loro spinta propulsiva e il trasformismo divenne di conseguenza una prassi consolidata. Alla voce “trasformismo”, l’enciclopedia Treccani recita così: «Termine con cui la pubblicistica italiana definì la prassi politica, inaugurata da Agostino Depretis, consistente nel formare di volta in volta maggioranze parlamentari intorno a singole personalità e su programmi contingenti, superando le tradizionali distinzioni tra destra e sinistra».

SE al nome di Agostino Depretis, il presidente del Consiglio della Sinistra storica che occhieggiava a destra, sostituiamo quello di Matteo Renzi ci accorgiamo che la definizione non ha perso di attualità. La «prassi politica» è simile. A seconda delle leggi che intende far approvare dal parlamento e della fase politica che attraversa, l’attuale premier, già strutturalmente alleato col Nuovo centrodestra di Alfano, cerca e spesso trova i voti di Berlusconi, o di Verdini, o di Grillo... E nel frattempo lavora alla scomposizione di Forza Italia e alla ridefinizione di un Pd decisamente meno “di sinistra”. Inutile gridare allo scandalo, nelle fasi di transizione i partiti si dissolvono, le militanze di confondono, le appartenenze si ridefiniscono. Basti pensare che a Milano il Pd candiderà a sindaco un manager di destra e a Roma la destra, avendo rifiutato (sbagliando) di sostenere un imprenditore di sinistra, vorrebbe farsi rappresentare da una presentatrice di centro.