"Io e la mia famiglia in fuga dall'inferno della Libia"

Il manager Marco Vignali, 37 anni, è appena rientrato in città con la moglie e la figlia

Il manager Marco Vignali

Il manager Marco Vignali

Reggio Emilia, 30 luglio 2014 - Il rumore delle bombe, gli spari per strada, le persone che cadono a terra morte sotto i tuoi occhi, la gente che gira armata ovunque, e non si distingue più se sono civili che vogliono difendersi o se sono i miliziani che appartengono alle bande che si affrontano in tutto il Paese: tutti imbracciano il mitra. A tutto questo è scappato Marco Vignali, 37 anni, amministratore della società che l’azienda per la quale lavora, l’Euroelettra di Marmirolo, aveva aperto in Libia. Fino a pochi giorni fa, e per due anni e mezzo, Vignali si era trasferito stabilmente nel Paese con la moglie e la figlia, in un appartamento a Tripoli con una «meravigliosa vista sul mare». Ma a questa vista se ne è sostituita, negli ultimi mesi, un’altra: distruzione e morte ovunque. In gennaio sono rientrate la moglie e la figlia, pochi giorni fa è toccata a lui su consiglio dell’Ambasciata: «Impossibile continuare a vivere lì». Anche per uno, come Vignali, che racconta che «alle sparatorie per strada ci si era abituati: io e gli altri italiani sapevamo che non erano rivolte a noi». Quindi la vita continuava come se niente fosse, o quasi. Ma ora, chi come lui credeva nella rinascita economica e culturale del Paese, si è dovuto ricredere davanti alle bombe.

Vignali, quand’è iniziato il suo lavoro in Libia? «Abbiamo avuto una grossa commessa dal Paese dal 2009, ma siamo rimasti a metà quand’è scoppiata la rivoluzione. Dopo l’inizio di questa nuova fase, io sono andato giù più volte per cercare di riprendere i soldi. Poi le prospettivesono cresciute: così l’azienda ha deciso di aprire una nuova società, che operasse là stabilmente. A quel punto, nel 2012. anch’io ho deciso di stabilirmi là con la mia famiglia, cioè mia moglie e mia figlia che ha dodici anni»

Dove abitava? «Ho preso in affitto un piccolo appartamento a Tripoli, in un villaggio che ospita stranieri, vicino al mare».

Nell’ultimo mese la situazione in Libia è degenerata. «Purtroppo sì. Io ho deciso di tornare a Reggio, dove abito in centro storico. Nel Paese la situazione è precipitata. Quando sono arrivato, nel marzo 2012, in Libia c’era un Paese pronto a ripartire da capo, con uno spirito di rinascita che in Italia non c’è più, con spazi anche professionali. Sembrava una bella opportunità».

E invece? «Si sono poi sono create varie fazionei di miliziani che hanno messo in ginocchio il Paese. Durante la rivoluzione si poteva stare al sicuro in alcune zone del Paese o della città. In gennaio ho deciso di rimandare mia moglie e mia figlia a casa: non vedevo più le condizioni minime per la sicurezza. Davanti all’istituto che frequentava mia figlia, una scuola internazionale. era stato rapito un coreano».

Lei è comunque rimasto per qualche altro mese. «Sì, ma ho visto i problemi amplificarsi a dismisura. Rapine, furti e rapimenti si sono intensificati. Ho trascorso maggio e giugno sentendo il rumore dei bombardamenti di notte: sembrava il finimondo, poi alla mattina tutto tornava alla normalità».

Come ha fatto ad orientarsi, in un contesto così difficile e in perenne evoluzione? «Devo ringraziare l’ambasciatore italiano in Libia, Giuseppe Buccino grimaldi e tutto il suo staff: sono persone meravigliose, che si interessavano costantemente di sapere dove eravamo, mostrando di avere a cuore le nostre situazioni.In questo periodo hanno organizzato incontri periodici, parla con ognuno di noi per decidere cosa fosse meglio fare, se rimanere o no. In uno di questi incontri, negli ultimi tempi, ci aveva consigliato di andare a casa. A fine giugno ho capito che rimanere in Libia non aveva più senso».

Ha assistito a scontri? «E’ la normalità. Vedi arrivare uno in moto e sparare, e poi vedi il cadavere a terra. Senti raffiche di mitra ed esplosioni tutti i giorni».

Avrà avuto paura. «Ci si abitua: si vince il terrore solo perché si sa che il fuoco non è rivolto a te. . Però voglio precisare che gli italiani che erano e rimangono là, non sono incoscienti, ma persone che sanno muoversi nel territorio grazie ai contatti locali che hanno sviluppato e che li sanno proteggere, come avevo anch’io».

E’ mai stato coinvolto in qualche episodio particolare? «A un posto di blocco un gruppo in divisa e armato mi ha fermato e contestato, in modo sbagliato, che avrei dovuto guidare con la targa libica con la sigla che identifica l’Italia, cioè il numero 15. E’ venuto il mio partner libico, che mi ha fatto liberare lasciando loro duecento dollari».

Come stanno i civili? «E chi li distingue, i civili? Tantissime persone girano in mimetica e con un mitra in mano: non riesci a capire chi siano. Il Paese appare fuori controllo: dopo la rivoluzione non ci sono più nemmeno l’esercito o la polizia a cui potersi rivolgere, e questo è stato uno dei motivi che mi ha spinto a rientrare a Reggio. Spero che la situazione rientri al più presto, ma è molto difficile».