«Non ci lamentiamo del cibo, ma di come viene cucinato»

La protesta dei pakistani: «E all’ospedale dobbiamo aspettare per le visite»

I profughi a pranzo alla mensa di via Eritrea

I profughi a pranzo alla mensa di via Eritrea

Reggio Emilia, 28 aprile 2016 - «NOI no mangio bene qui. Cibo italiano buono, ma riso e pasta non cucinato bene qua...». Prova a spiegarsi con un italiano stentato, Zeshan, uno dei pakistani richiedenti asilo che alloggiano nelle strutture alberghiere di Reggio. Uno dei pochi che mastica un po’ della nostra lingua e tra coloro che hanno guidato la «rivolta dei maccheroni» nella mattinata di mercoledì, davanti alla questura per lamentarsi della qualità del cibo al Locomotore, la mensa in via Eritrea dove mangiano, essendo convenzionata con la Dimora d’Abramo che segue oltre 200 migranti nel processo di inserimento.

E proprio nello storico ristoro di tanti ferroviari da anni e anni, ieri siamo andati ad ascoltarli all’ora di pranzo. Dalle 11 alle 13 è il loro turno (dalle 18 alle 20 per la cena), dopodiché il locale si occupa di dar da mangiare a operai e dipendenti delle ferrovie che lavorano nella zona stazione. Per i migranti c’è una sala riservata, ampia e ben curata, con tanto di televisione. Occupano i tavoli divisi per nazionalità. Che sono addirittura 16. Da una parte i pakistani, da un’altra i nigeriani e così via. La maggior parte sono in Italia da pochi mesi, in attesa di essere collocati in appartamento.

«Pasta is very nice, but here is no good». La pasta piace, ma lamentano che non è cucinata bene. A dirlo è Eftijar, un altro pakistano che è andato a parlare con la questura mercoledì, seguito dai connazionali. Nel suo vassoio, un piatto di pasta al pomodoro, pollo con carciofi e altre verdure: il menu di ieri. Una pagnottina di pane e una bottiglia d’acqua. Effettivamente pare non gradire molto il gusto, senza usare molta decisione nelle forchettate e mettendo sul bordo del piatto parte del sugo.

E spiega: «Siamo andati a protestare non perché il cibo è cattivo, ma perché non è cucinato bene. Ci hanno servito il riso scotto. Ma ci sono altri problemi, come la sanità. Se andiamo in ospedale, dobbiamo aspettare tantissimo per essere visitati. Vorremmo una casa in cui vivere e poterci cucinare i nostri cibi».

Insomma, il cibo è anche una sorta di pretesto. Come ci racconta anche un’operatrice stessa della Dimora d’Abramo, che però poi viene stoppata da una responsabile, che le nega di parlare. Lamentele però che paiono esagerate anche a loro. Spesso i rifugiati si scagliano contro l’associazione, non riuscendo a distinguerla dalle istituzioni, «accusandola» di tutte le colpe. Dal cibo alla sanità.

Nigeriani e altri di origine africana sono più tolleranti: «Qualcuno di noi i primi mesi è stato male. È difficile per noi abituarci al regime alimentare italiano, ma il cibo non è cattivo. Ogni tanto capita che non è cucinato bene, ma mangiamo lo stesso. Non paghiamo noi, perciò ci accontentiamo».

Poi ci viene chiesto di uscire. E qui che incontriamo Zeshan, assieme ad altri pakistani. Parla un pizzico d’italiano e spiega nei particolari: «Il cibo italiano è buonissimo. Ma qui cucinano male. La pasta spesso è scotta e c’è troppo olio e troppo pomodoro. Stessa cosa il riso che è pieno d’acqua. Sono cinque mesi che vado in ospedale perché ho dolori alla pancia. A noi va bene ciò che mangiamo, ma non come viene preparato. Tanti di noi hanno mangiato cibo italiano in Germania o in Inghilterra: è meglio di questo».