Reggio Emilia, 6 luglio 2011 - «Scaricavamo i rifiuti d’amianto nel cortile tra la fabbrica e la ferrovia, poi coprivamo il tutto con i liquidi prodotti dallo scarto della lavorazione».
A ricordare le vecchie pratiche di lavoro è Ezio Fantinati, 83 anni, sposato, due figli abitanti a Modena, ex lavoratore dell’Icar di Rubiera, che si è costituito parte civile al processo ‘Eternit’ di Torino. Gli operai che si sono ammalati di tumore sono tutti morti, Fantinati - assistito dall’avvocato Ernesto D’Andrea - è l’unico della vecchia Icar ancora in vita ma con gravi problemi respiratori che, ritiene, sarebbero causati dalle esalazioni respirate nelle vecchia azienda e dall’amianto. L’abbiamo rintracciato al mare, dove passa buona parte del suo tempo a scopo terapeutico. «Almeno qua respiro l’aria buona» dice.
Fantinati, quando ha iniziato a lavorare alla Icar di Rubiera?
«Avevo poco più di trent’anni, ero giovane e alla ricerca di un impiego. Ho cominciato appena l’azienda aveva aperto, nel ’60. Io sono originario di Modena, mi sono spostato a Rubiera per cercare lavoro ma le cose non sono andate come volevo».
Che cosa è successo?
«Non ho resistito per più di due anni all’Icar, ogni giorno dovevo respirare la polvere dell’amianto che si espandeva nelle zone di lavoro. Questo ‘fumo’ entrava nel naso, sulla pelle e sui vestiti».
Non si usavano mascherine e guanti?
«No, era l’inizio della produzione di cemento-amianto, nessuno temeva danni sulla salute. Infatti non ci sono mai state fornite mascherine».
Ma non avevate sintomi, non vi eravate insospettiti?
«Sul corpo a volte comparivano delle strane macchie, ma mi era stato detto di non preoccuparmi. Capitava però che qualcuno si rifiutasse di scaricare i sacchi e i materiali contenenti l’amianto che arrivavano in azienda...».
Anche lei si rifiutava?
«No, io no. Venivo dalla campagna, non avevo paura e accettavo qualsiasi tipo di lavoro».
Che cosa faceva esattamente?
«Spostavo i sacchi pieni di materiali in amianto, costruivo i tubi e le vasche».
Dei rifiuti, gli ‘scarti’ aziendali, chi se ne occupava?
«Già, anche quello era compito mio. Dato che ero capace di guidare il camion portavo i residui in una zona del cortile dell’Icar, verso la ferrovia. In quell’angolo abbiamo depositato molto materiale che poi veniva coperto con i liquidi di scarto e la terra, rendendo il deposito invisibile. Non so se qualcuno è riuscito a trovare tutti gli scarti lasciati nel terreno».
Questa modalità di far sparire i rifiuti era la prassi?
«Sì, all’epoca facevamo così. Non c’è da stupirsi, nessuno conosceva le conseguenze che l’amianto poteva avere sulla salute, di conseguenza depositavamo il tutto un po’ in disparte».
All’Icar si contano circa 40 persone morte di tumore.
«Sì, ho perso diversi amici. La malattia li ha divorati. Io sono scappato dall’azienda appena in tempo per salvarmi la pelle, nel ’62 sono tornato in campagna per respirare dell’aria buona. Non ce la facevo più, non tanto per la fatica ma per l’aria irrespirabile».
Come le ha cambiato la vita l’amianto?
«Sono arrivato a fatica a 83 anni. Ho dovuto subire interventi alle vie respiratorie, ormai non posso camminare per più di 100 metri perché mi viene il fiatone. Anche a dormire ho dei problemi. Non è una questione d’età, sono problemi di salute che mi trascino da diversi anni».
Ora che cosa si aspetta dal processo di Torino?
«Spero che venga fatta chiarezza e magari in un risarcimento. La polvere d’amianto che ho respirato all’Icar ha condizionato tutta la mia vita. Il semplice respirare è diventato un gesto difficile e problematico».