Reggio Emilia, 19 febbraio 2012 - Nno Tagliavini è tornato in Unieco. Non metteva piede nella sua ex azienda da chissà quanto. Doveva parlare con un impiegato di cose legate alla sua attività di (privato) imprenditore nel settore immobiliare. «Ho fatto fatica - ammette Tagliavini, che della cooperativa edilizia fu presidente nei quattro anni più difficili, quelli di Tangentopoli - Per il centenario, due anni fa, è uscita una pubblicazione. Non so neppure se sono citato. Solo un trafiletto. Sono scomparso. Eppure con me, da cento milioni di fatturato nel 1968 siamo arrivati a trecento miliardi nel 1995. La verità è che io dovevo star zitto. Non ho mai rubato, lo sanno tutti. Ma tutti mi avevano consigliato di tacere e io purtroppo ho fatto di testa mia. Anzi, purtroppo no».

Vent’anni dopo Mani Pulite, il cooperatore che svelò ai magistrati di Roma di aver portato i soldi al Pds, l’uomo che fece il nome di Massimo D’Alema, guarda con distacco alle polemiche sul ventennale di Tangentopoli, Di Pietro che piange, Stefania Craxi che si arrabbia. Ma è acqua passata fino a un certo punto, anche per lui: un anno fa ha chiesto, tramite l’avvocato Romano Corsi, la riabilitazione.

Ha 62 anni, le serve a qualcosa essere riabilitato?
«Non me ne faccio nulla ma mi sono accodato ad altri di Unieco. Loro l’hanno chiesta per essere ammessi agli incarichi pubblici. Io non ho nessun ostacolo. Da Milano non si sa nulla».

Vent’anni dopo, vedere Di Pietro disperato perchè «il cancro corruzione è diventato metastasi», che effetto le fa?
Scoppia a ridere. «La figura è complessa. Io allora conobbi un poliziotto. Ma era pure un gran commerciante. Negoziava. Quando mi interrogò disse: se scendo e chiedo ai taxisti chi finanziano le cooperative, tutti, dal primo all’ultimo, dicono che è il Pci».

Lo storico interrogatorio di Roma. Le cronache dissero che, agitatissimo, interrompeva di continuo per andare in bagno.
«Non è vero. Non furono neppure i pm a interrogarmi ma la polizia giudiziaria, ho fatto fatica a dettare, non volevano ascoltare. Lo vuole sapere? I magistrati non volevano neppure sentirselo dire, il nome di D’Alema! Poi la sentenza del giudice Ghini lo ha prosciolto perchè aveva chiesto i soldi, ma non che gli venissero dati in modo irregolare».

Tagliavini, perchè parlò di quella valigetta portata al Pds?
«Io lo dissi come un fatto normale, era una prassi. Me lo avevano chiesto, non è che mi hanno sparato in testa. Sono loro che hanno complicato la vita. Da tre anni mi chiamavano in giro per l’Italia per le inchieste, i processi. Ero stato a Rebibbia venti giorni, per Reggio Calabria da cui poi sono stato assolto. E dopo la scarcerazione non c’era più nessuno, spariti. Ecco perchè parlo, dopo. Basta, mi ero rotto».

Lei portò solo quei duecento milioni del 1992?
«Erano 270. A nome mio. Ne risposi io. Altre volte, altri soldi? (ci pensa un attimo) Diversi miliardi di lire. Li ho portato in parte, altre volte qualcun altro. Non faccio nomi, è un fatto etico».

Zitto: fa come fece Greganti?
Torna a ridere. «Vede, quando cominciai, a Correggio, all’Unicoop era socio Catellani. Mi raccontò del delitto don Pessina, com’erano andate le cose. C’era anche lui. Dopo sette anni ci unimmo con un’altra cooperativa, e lì era socio Gaiti, un altro del caso del prete. A Correggio mi avevano avvertito: è così, ma non si dice a nessuno. E’ la cultura che dice: tu finanzi il partito e non devi dire niente. Come in chiesa, con le donne che scrivono l’importo sul biglietto».

Cosa c’è sulla sua fedina?
«Venni inquisito per falso in bilancio, finanziamento illecito, reati fiscali. Per il falso sono stato assolto a Reggio, per il finanziamento il fascicolo è rimasto a Reggio sei anni poi rispedito a Roma un mese prima della prescrizione. Prosciolto per decorrenza termini. Alla fine l’unica condanna è per finanziamento illecito a Milano, sette mesi. Dieci anni di processi, l’ultimo nel 2009: tre a Milano, uno a Torino, uno a Mantova, due a Reggio e uno a Roma».

Ha conosciuto Craxi?
«Andai a trovarlo ad Hammamet, con Del Bue, nel 1995. Ero stato inquisito sulla metro, voleva avere notizie. Fu gentilissimo. In Tunisia viveva male, una casa di cento metro quadri in campagna circondata di poliziotti. Una piscina due per quattro dove si lavavano i piedi. C’era un’intercettazione di una telefonata tra Del Bue e Craxi, Craxi gli diceva di andar là con l’amico. L’amico ero io».

Ha mantenuto rapporti con i leader della cooperazione?
«I rapporti sono buoni. Per me il cooperatore tipico, estremo è Fontanesi Donato. Non ci sentivamo da allora, da quando insieme si stabilivano i lavori da fare nel mondo. Qualche mese fa, un amico mi chiede di metterlo in contatto con Fontanesi. Lo chiamo. Mi risponde come se ci fossimo sentiti tre giorni prima. Sovietico...».

E se le chiedessero di tornare a lavorare in cooperazione?
«Lo farei, se me lo chiedessero».
 

Mike Scullin