Reggio Emilia, 12 ottobre 2012 - Quando sentiva arrivare la fine, pur indebolito dalla malattia innescata da una trasfusione di sangue infetto 19 anni prima, Giancarlo Saracchi chiamò dall’ospedale l’avvocato Cristina Cataliotti: "Mi raccomando - le disse al telefono - porti avanti questa causa nell’interesse di mia figlia".

Era il testamento morale di quell’uomo di 67 anni che, persa la moglie sette mesi prima, pensava solo alla figlia Silvia Alberta e a Martina, la nipote di tre anni. Era il 2003. L’avvocato prese l’impegno e a fianco della figlia ha battagliato. Nove anni tra speranze e delusioni, senza arrendersi. Fino alla vittoria. Il giudice civile di Bologna Alessandro Gnani ha appena riconosciuto il diritto di Silvia Saracchi a essere risarcita in solido dal ministero e dalla Regione per quella trasfusione al padre dopo un terribile incidente stradale.


Denaro che i due enti pubblici devono pagare seduta stante. Sarebbero 300mila euro, 50mila per le sofferenze patite dal padre nei tre anni successivi all’apertura della causa; 220mila alla figlia come prezzo del dolore; 40mila di interessi più spese legali. Ma bisognerà togliere 75mila euro, la rendita già ricevuta dalla figlia come indennizzo, riconosciuto a prescindere dalla colpa. La sentenza sarà appellata ma recenti modifiche procedurali renderanno difficile il ricorso. L’avvocato è ottimista per la forza della motivazione. E’ rivoluzionaria e blindata, la decisione di Gnani, già giudice del lavoro a Reggio. Per due motivi.


Primo: il giudice riconosce il risarcimento per una trasfusione precedente il 1978, spartiacque stabilito da gran parte della Cassazione, perchè già prima di allora - dice la letteratura scientifica - si poteva valutare se le sacche di sangue fossero sicure o no. Secondo: oltre al ministero, che transa le cause solo per le trasfusioni post-1978, il giudice - facendo suo il lavoro di ricerca e analisi dell’avvocato Cataliotti su pronunciamenti e consulenze medico-legali - condanna anche la Regione, che avrebbe dovuto controllare e non prendere il sangue a scatola chiusa. Un principio che può avere effetti a catena: sono tantissime le cause in piedi.


Si commuove, Silvia Saracchi, ricordando quel che passò il padre. Abitavano all’Orologio. Lui era camionista e alla guida ebbe il gravissimo incidente a Gavasseto. Perse molto sangue, al Santa Maria ricevette la trasfusione. Dato per spacciato, fu operato e salvato dai chirurghi Parisoli (cugino della moglie di Saracchi, Ave Costi) e Motta.

Si riprese, ma poi la salute declinò per l’epatite B. Fino a precipitare, coi frequenti coma epatici degli ultimi anni: assistito dalla moglie - che, malata di diabete, morì d’infarto a 63 anni, prima del marito, per lo stress subito - e dalla figlia unica Silvia, oggi 50enne che dovette tornare a Reggio da Madonna di Campiglio. Un altro chirurgo, Roberto Prati, tentò il tutto per tutto ma fu inutile: la cirrosi non diede scampo a Saracchi. Era il 2003. "Ai funerali - ricorda la figlia - gli mettemmo cappello e sciarpa nerazzurre, era tifoso dell’Inter, e una ruspina. La sentenza dopo tutti questi anni non mi ridà mio padre. Ma è per lui, visto che le cose sono andate così".