Reggio Emilia, 21 ottobre 2013 - SONO tante le strade che portano alla dipendenza da gioco d’azzardo. La voglia di superare difficoltà economiche, lo svago, l’abitudine culturale o, semplicemente, la voglia di fare soldi facili. Proprio per questo motivo ha iniziato a giocare E.S., prima credendo di poter dominare il gioco, poi rendendosi conto che era diventato una dipendenza. Ora è seguito dall’associazione Papa Giovanni XXIII e ci ha raccontato la sua storia.
 

IL MIO RAPPORTO con il gioco iniziò in modo molto diverso da quanto spesso accade: non inseguivo la fortuna e non ero superstizioso, cercavo piuttosto di vincere attraverso calcoli matematici. La mia formazione da ingegnere mi portava a scegliere i giochi con più alto grado di successo e a tralasciare gli altri, calcolavo le probabilità e utilizzavo il gioco come strumento per guadagnare più soldi, non per passare il tempo o perché lo trovavo particolarmente divertente.
 

INIZIALMENTE funzionò e credetti di avere trovato una via semplice per arricchirmi. Per professione mi occupavo di brevetti ed ero abituato a calcolare e incrociare numerosi dati e possibilità, credevo che il gioco d’azzardo fosse una cosa semplice e che a rimetterci fossero soltanto i cosiddetti “polli”. Ricordo quanto giudicavo sciocco e superstizioso mio zio, che quando andava a giocare portava con sé una zampa di gallina che a suo dire gli portava fortuna. Io mi sentivo diverso, più forte, più razionale; vincente. Purtroppo mi sbagliavo e nel giro di qualche anno il gioco d’azzardo diventò altro per me…
 

HO ANCORA impressa nella mente la notte in cui mi resi conto di aver perso il controllo per la prima volta: ero in Russia per lavoro ed entrai con colleghi in un locale nel quale, dietro ad una grossa tenda, erano posizionate slot machine che non avevo mai visto e che non vidi mai più, avevano uno strano nome, si chiamavano “crazy a pone”. Non conoscevo il gioco né le sue probabilità di vincita, ma certo della mia intelligenza iniziai a giocare per vincere denaro e dimostrare le mie capacità ai colleghi; in poche ore persi tutti i soldi che avevo con me.


QUESTA grande frustrazione iniziò a farmi sentire crescere il desiderio di rifarmi, e una volta tornato in Italia ripresi a giocare per dimostrare a me stesso la mia superiorità sul caso. Non gli ero superiore… o forse non riflettevo realmente sul fatto che chi vince davvero al gioco è sempre il banco.
 

ALLA FINE mi ritrovai in catena, dovevo continuare a giocare per sperare di recuperare i soldi persi, ma quando uscivo dai luoghi di gioco mi sentivo un verme. Ci misi altri tre anni prima di chiedere aiuto e solo ora, dopo 8 mesi di terapia, comincio a capire cosa realmente mi spingesse a giocare e quanto fossi stupido nel credere di poter governare un meccanismo ben più grande di me e nel quale l’unico che vince davvero non è certamente il giocatore, ma chi gestisce il gioco.