Scandiano (Reggio Emilia), 21 aprile 2014 - CHISSÀ in quale abisso di disperazione era sprofondato, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, papà Enrico (malato grave di un tumore alla gola) per arrivare al gesto più estremo che un genitore possa compiere: armare la mano e uccidere a freddo, con spietata lucidità, il figlio ricoverato in ospedale. Per poi rivolgere contro di sé la pistola e farla finita. Andrea, 35 anni, gli ultimi dieci persi nel tunnel della droga. Una tragedia che ha sconvolto e annichilito Reggio Emilia, quella deflagrata l’altra sera a Scandiano, un paesone del comprensorio ceramico. Droga. Una tragedia in fondo “facile” — semmai si possa usare un simile aggettivo — da leggere nella sua cruda motivazione: il ragazzo che non vuole saperne della comunità, il padre malato che sente la vita scivolare via e non trova altra soluzione per non lasciare tutto il peso sulle spalle della moglie e dell’altro figlio, già duramente provati. Distrutti anche loro.

UN ATTO d’amore estremo, se vogliamo. Sbagliato,ovvio, ma comprensibile anche se non giustificabile. La droga è un mostro che non guarda in faccia a nessuno. Il problema è che di droga ormai si parla meno e spesso lo si fa in termini ideologici. Soprattutto si finisce per dimenticare la necessità di aiutare le famiglie che sprofondano nell’abisso. È una solitudine immensa — nonostante l’aiuto delle comunità, dei tantissimi volontari — quella in cui piombano i genitori che scoprono di avere un figlio drogato. È la solitudine che devono aver provato i Degani, una vita serena, una bella casa, poche preoccupazioni economiche. Fino a quando Andrea dalle canne è passato alle droghe pesanti. È l’angoscia del “dopo di noi”, quella che ti azzanna alla gola quando capisci che tu sei alla fine e non sai a chi affidare, “dopo di te”, una persona cara. È il dramma che vivono ogni giorno i parenti degli handicappati o dei malati gravi.
Non lasciamoli soli.

Luigi Manfredi