Reggio Emilia, 4 marzo 2014 - REGGIO trionfa alla 86esima Notte delle Stelle. «E l’Oscar va a... The Great Beauty». Sì, La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino vince la statuetta per il Miglior Film Straniero e con lei la gloria è di Reggio attraverso Cristiano Travaglioli, montatore del film. Un reggiano. 

Reggio canta vittoria e pare di essere su quel terrazzino dove sono collocati regista, moglie, Toni Servillo e produttore, che prorompe di entusiasmo. La febbre italiana si sparge al Dolby Theatre e una città intera — la nostra — è in festa. Sono le 4 .10 del mattino da questa parte di mondo, quando viene proclamato il verdetto e Travaglioli è a Roma, non ha seguito la delegazione a Hollywood. Apprende tutto dalla tv uno dei montatori più bravi del mondo, autore dell’editing della Grande Bellezza.

Cristiano Travaglioli, nato nel 1968 e cresciuto a Reggio Emilia, porta sempre con sé la sua città. Definito ‘Brilliant editor’ (montatore di talento) da Variety, la bibbia dello spettacolo, il reggiano è molto stimato nell’ambiente del cinema, dove si è costruito una carriera importante al fianco di alcuni dei registi più promettenti di oggi. Il sodalizio con Paolo Sorrentino dura da anni: per il napoletano ha curato il montaggio di Il Divo e This Must Be The Place. Prima di questi aveva firmato Fascisti su Marte, con Corrado Guzzanti, poi Paura del buio, per il debutto alla regia di Massimo Coppola, più di recente Il volto di un’altra di Pappi Corsicato con Laura Chiatti, mentre nel 2013 ha fatto l’editing di La mafia uccide solo d’estate di Pif.

Il 7 dicembre è stato premiato agli European Film Awards, gli Oscar europei, per La Grande Bellezza. A Sorrentino lo lega un sodalizio di lungo corso: «Con Paolo c’è un rapporto di scambio continuo sulle scelte da prendere e spesso la spunta lui». Nel film premiato con l’Oscar si nota il tocco, il ritmo impresso ai meravigliosi affreschi di Roma descritti mirabilmente dal napoletano e così ben collocati dal reggiano. Che cosa passa per la testa di una persona toccata da un successo planetario? Glielo chiediamo.

 

TRAVAGLIOLI, un Oscar al ‘suo’ film. Che cosa farà adesso? Una festa in stile grande bellezza con nani e ballerine?
«Non penso, anche se mi preparo per festeggiare il ritorno di Paolo e Toni dall’America».
Non era a Los Angeles?
«No. Lavoravo domenica, dovevo consegnare la sequenza di un film nuovo e avevo dei tempi di scadenza rigidi. Ho preferito non andare, ma la verità vera è che per entrare nel teatro c’erano 4 biglietti per produttore, moglie del regista, regista e Toni Servillo (nella foto al centro, ndr). L’ho visto con un gruppo di ascolto qui a Trastevere, in una casa privata. Poi siamo andati a Villa Borghese, dove avevano allestito due sale e si è tirato fino alle 5 del mattino. Molto bello».
Qual è la difficoltà maggiore di montare un film complesso come questo?
«Sono 2 ore e venti a fronte di 90 ore di girato. Il difficile sta nella sua natura linguistica, è come se non avesse una trama. Noi lo definivamo ‘rapsodico’. Tutta questa umanità e Roma stessa mi hanno messo a dura prova. Una fatica... Come se dovessi trovare la via di casa in un oceano, via mare, di notte!»
Che ricordi ha di infanzia e adolescenza reggiane?
«Le Medie alla Rosta Nuova. Frequentavo il Topo, un centro sociale che non esiste più dove si faceva alfabetizzazione di immagine ed è lì che ho cominciato ad apprezzare le videocassette, i primi film. Da quel luogo ho iniziato a capire e vedere certe cose cinematografiche che avrebbero segnato il mio immaginario».
Dove abitava?
«Alla Pappagnocca. Anzi, vorrei dire una cosa! Il campo da calcio che c’è nel quartiere è in gran parte merito mio. A quei tempi – io sono un ‘68 – il sindaco di allora Ugo Benassi fece costruire questo campo mettendo luce e pali ai lati, dietro mia espressa richiesta».
Il Rosebud che cosa ha rappresentato per lei?
«È il posto, prima dell’Università, dove ho affinato il mio gusto in termini cinematografici. Se quello che faccio è buono, la mia formazione culturale e visiva lo sono, lo devo totalmente alla sala di via Medaglie d’Oro. Ci ho trascorso gli anni fino ai 18. Mi ha fatto capire come la realtà culturale di Reggio, città di provincia, sia di prim’ordine rispetto a tante altre a parità di estensione».
Che legame ha con Reggio?
«Ci torno spesso. Ogni due mesi. Ho i miei genitori qui. Li vengo a trovare e ho moltissimi amici Non sono per niente sganciato. Mi piace tornare. Anche se vivo nella Capitale, se devo pensare a ‘casa’, penso a Reggio».
Abbiamo intuito che Sorrentino deve avere un certo carattere...
«Io conosco Paolo fin dal suo esordio nel lungometraggio. Dall’Uomo in più... siamo molto onesti l’uno con l’altro, il lavoro è diretto e attraversato da momenti di grande affinità. A volte siamo d’accordo, a volte no, ma litigi mai. Può sembrare tagliente e tranchant, però io in moviola con lui ho avuto momenti di grande concentrazione e di divertimento. Gli voglio molto bene».
Quando è nata la passione per il cinema?
«Attorno ai 17-18 anni. Ma quando avevo 10 anni e uscì Apocalypse Now, che non potevo vedere, ricordo mi trovavo in un’arena estiva ma sentivo e capivo tutto. Il Vietnam, la drammaticità di quel film. Da cresciutello ho lavorato nell’agenzia di pubblicità di Reggio ‘Diaviva’, poi come operatore di macchina con il reggiano Pier Dante Longanesi. Devo ringraziare due persone».
Prego.
«Corrado Guzzanti e Paolo Sorrentino, che mi ha fatto diventare capo reparto de Il Divo e responsabile del montaggio».
Seguendo la moda di Ellen DeGeneres dagli Oscar, perché non si fa un ‘selfie’?
«Preferisco di no. Grazie».

Lara Ferrari